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A distanza di tanti anni e con un giudizio che ha ormai valore storico si può dire che la fine di Moro coincide con la fine della Dc e della politica del periodo del dopoguerra iniziata da De Gasperi. Dopo Moro la forza dei partiti come portatori di idee e catalizzatori di consenso democratico a presidio delle istituzioni viene meno.

Il valore della coalizione che era a fondamento della politica degasperiana si esaurisce quando nel ‘76 sia Dc che Pci, avendo ottenuto un risultato vistoso e pressoché uguale, si annullarono reciprocamente perché, pur essendo storicamente alternativi, erano costretti ad assumere una qualche responsabilità per dare un governo al Paese: maggioranza e opposizione insomma dovevano farsi carico della situazione eccezionale che si era determinata. Moro aveva più di tutti la consapevolezza tragica di questa situazione che avrebbe fatto cambiare natura e funzione non solo ai singoli partiti ma alla democrazia nel suo complesso, e sapeva che avrebbe dovuto risolvere il problema con immediatezza. La politica va giudicata dai fatti, dalle cose reali, non dai desideri: la politica della Dc ha avuto come principale ispirazione il rafforzamento della libertà e la sconfitta del Pci che era in quegli anni già in sostanza sconfitto mentre la Dc era impegnata in una battaglia difficile per evitare che il nuovo partito che stava venendo fuori per impulso di Moro potesse cambiare natura rispetto a quella indicata dal corpo elettorale.

Nella consapevolezza del ruolo rinnovato che il partito si voleva dare era necessario rilanciare la proposta di un confronto istituzionale che fu, emblematicamente, ma con profondo valore culturale e politico, chiamato “patto costituzionale”, anche se non compreso a pieno dalla Dc. Altre linee non vi erano nel partito. Bisognava attestare tutta la Dc su queste posizioni e in tal modo avremmo avuto la forza di dialogare con un Pci che sarebbe stato ancor più costretto a confrontarsi con i problemi del nostro Paese, ad adeguare ad essi le sue revisioni ideologiche. Moro aveva chiara la consapevolezza che il Pci era ancora legato e subordinato allo schema sovietico e che aveva bisogno di tempo e dell’instancabile opera di Berlinguer per riscattarsi con una profonda revisione ideologica. La situazione anomala di quel periodo costringeva i due partiti che erano entrambi vincitori alle elezioni e che quindi dovevano trovare una modalità credibile e accettata per dare un governo al Paese e una stabilità alla Repubblica parlamentare la quale in quegli anni era consistente e attiva.

I partiti, nelle loro diverse funzioni, erano stati per tutto il periodo del dopoguerra forti e consistenti nelle istituzioni e avevano reso forte e consistente il Parlamento. Il governo delle “convergenze parallele” o della “non sfiducia”, che consentiva alla Dc di dare un governo al Paese e al Pci di assumersi una responsabilità politica per così dire “esterna”, fu la grande invenzione di Moro che consentì di salvare la democrazia e il rapporto dialettico e democratico tra le forze politiche, ma purtroppo non consentì la continuazione della sua vita personale! Il governo che Moro aveva preparato in lunghe settimane di trattative vide la luce nel marzo e per oltre due mesi Moro con certosina pazienza aveva ricevuto le delegazioni dei partiti entrando nei particolari dei programmi che dovevano trovare un equilibrio difficile, a volte impossibile, tra forze politiche che fino ad allora erano in grande contrapposizione tra di loro.

Non posso non ricordare un episodio significativo: io organizzavo la delegazione della Dc che si occupava dei problemi della giustizia e dello Stato; il Pci proponeva come programma di istituire il giudice monocratico e io rappresentavo a Moro le difficoltà ad accettare questa soluzione. con un singolo giudice si potesse procedere più speditamente. Moro mi disse con tanta solennità che si poteva cedere su tutto ma non sulle decisioni collegiali dei giudici: come nella politica e nelle cose fondamentali della vita, mi disse, che riguardano i diritti di libertà della persona (non dell’individuo) che i cattolici pongono al centro di tutto il sistema, non può decidere uno solo; si decide insieme con solidarietà e con responsabilità.

Dopo la sua morte, i partiti mutarono profondamente, diventarono una cosa diversa, come lui ci ha spiegato nelle lettere dal “carcere”: la politica morotea nella continuità con quella degasperiana corrispondeva a scelte di fondo che il partito aveva fatto nei lunghi anni del dopoguerra, aderenti tutte alle varie realtà storiche, e suscitatrici di iniziative che hanno guidato e non solo gestito la realtà del Paese; è stata una politica che ha posto il partito in posizione di preminenza e di anticipo rispetto alle richieste emergenti dalla società. I disegni erano questi, le politiche erano tutte legate a questo fine in fondo al quale vi era, per così dire, il rafforzamento dell’unità del Paese a favore di quelle “masse popolari” che per tanti anni erano rimaste ai margini e che erano diventate protagoniste per impulso di un partito profondamente democratico come la Dc.

Svuotati di contenuto e di funzioni i partiti, la Repubblica parlamentare vitalizzata dai partiti “forti” del primo periodo, perdette la sua spinta istituzionale e, come tanti studiosi hanno rilevato, divenne Repubblica “partitocratica” con movimenti burocratici senz’anima. La Repubblica è sopravvissuta per altri anni e sopravvive ancora ma si è deteriorata e frantumata. Oggi, nella situazione attuale, tanti hanno ricordato quel periodo e quelle scelte di Moro: a differenza di allora non si registrano due vincenti ma tre coalizioni perdenti, e il riferimento a quel periodo è astratto e stridente. Nel ‘76 vi erano, come ho detto, partiti forti e consistenti, oggi vi sono movimenti personali non “collegiali” come Moro voleva, e pertanto inconsistenti e non dialoganti. Le scelte di Moro furono fortemente politiche e il partito di opposizione fece scelte coraggiose che hanno inciso negli equilibri istituzionali. Ora sarebbero necessarie larghe coalizioni per pacificare il Paese e recuperare la cultura politica di quegli anni!? Potremmo essere forse al capolinea della lunga fase di transizione e di incertezza democratica che cominciò dopo l’uccisione di Moro e ricominciare da capo: si tratta di una debole speranza!

Giuseppe Gargani

Capogruppo delegazione popolari per l’Europa – Ppe, Parlamento europeo

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