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Dopo quasi 70 anni di pace, gli europei sembrano aver dimenticato perché la coesione è così importante, indulgendo in sentimenti nazionalistici senza riguardo per le conseguenze. Non si rendono conto che le loro economie sono troppo interconnesse perché politiche economiche indipendenti possano funzionare.

Questo fallimento è radicato in processi elettorali confinati ai singoli Paesi, che costringono i politici a far finta di poter affrontare i problemi economici su quella scala locale. Tanto più che l’elettorato non li spinge a guardare oltre i confini, anche se ciò avrebbe ricadute domestiche positive. Ora la crisi dell’euro sta costringendo i leader della Ue a pensare a cambiamenti istituzionali (la creazione di un’unione bancaria, fiscale e politica) a lungo dilazionati. Ma mentre gli Stati membri devono decidere all’unanimità su tutte le decisioni più importanti, il loro mandato li obbliga a vedere le questioni europee in termini di interesse nazionale. La capacità negoziale e tattica che questo approccio incoraggia rende impossibile sviluppare e offrire una visione paneuropea nell’opinione pubblica.

Questo problema è forse evidente soprattutto nel Regno Unito, che sebbene non sia membro dell’eurozona, è cruciale per far funzionare le istituzioni che possono risolvere la crisi della moneta unica. Ma invece di offrire l’appoggio di cui i partner europei hanno bisogno, la Gran Bretagna sta seguendo la propria agenda. Per esempio, rifiutando di firmare il fiscal compact, che impone controlli più stretti sulle spese nazionali nell’eurozona, la Gran Bretagna ha fatto sì che questo accordo operi al di fuori dei meccanismi della Ue. La motivazione britannica dietro questo rifiuto (dovuto all’assenza di un protocollo che esentasse il settore finanziario da alcune regole) indica che simili esiti sono da aspettarsi nei futuri negoziati.

Come ha spiegato recentemente il premier David Cameron, il governo vuole rinegoziare i termini della membership europea, e tenere un referendum sul nuovo trattato, una consultazione che potrebbe in pratica decidere sulla permanenza di Londra dentro la Ue. Mentre è chiaro che la Gran Bretagna potrebbe uscire dall’Unione, che è basata su un accordo volontario, questa scelta comporta gravi rischi.

Il problema è che Londra ha un forte interesse a mantenere pieno accesso al mercato della Ue (l’eurozona rappresenta la metà delle sue esportazioni di beni e servizi), ma non sembra disposta ad assoggettarsi a vincoli di qualsiasi natura. Di conseguenza i funzionari britannici danno l’impressione di poter avanzare proposte funzionali ai soli interessi del loro Paese. Il che può essere di impedimento ai negoziati e in ultima analisi danneggiare il sostegno pubblico alla membership europea. Come tutti i mercati, anche quello comune europeo è una costruzione politica che si fonda su regole comuni, regolamenti e convenzioni per garantire stabilità e affidabilità. Ritornare a poteri decisionali nazionali che possano essere utilizzati per imporre criteri che escludano gli altri metterebbe a rischio lo stesso mercato. Prima che si tenga il referendum, il pubblico britannico deve capire che queste materie semplicemente non possono tornare in mano alle autorità nazionali.

I sostenitori di Cameron citano il precedente del primo ministro laburista Harold Wilson, che nel 1975 rinegoziò i termini della membership britannica alla Cee (termini accettati pochi anni prima dal suo predecessore, il conservatore Edward Heath) e poi indisse un referendum sulla permanenza in Europa. Si dice: questa tattica ha funzionato una volta, funzionerà ancora.

Ma Wilson doveva negoziare con 8 partner molto simili. Invece Cameron si troverà di fronte 27 Paesi diversi (includendo la neoarrivata Croazia), molti dei quali affrontano gravi problemi interni. Di conseguenza, i negoziati hanno implicazioni politiche più serie, e con molti più rischi di fare la cosa sbagliata. Nonostante questi pericoli, molti politici inglesi pensano di poter soddisfare i gusti degli elettori parlando male dell’Europa, diffondendo ancora l’idea che i legami con la Ue (un’entità esterna che così si presume omogenea) siano qualcosa “a perdere”. Ora spetta all’opinione pubblica britannica riflettere approfonditamente su benefici e sacrifici impliciti nell’appartenenza all’Unione europea.

John Burton, ex-ambasciatore dell’Unione europea negli Stati Uniti ed ex-premier irlandese

© Project Syndicate, 2013

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