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Dopo quasi quattro anni di coabitazione al governo con democristiani e cristianosociali, il partito liberale tedesco si trova di fronte a un bivio. Il 22 settembre prossimo, giorno delle elezioni federali, potrebbe essere ricordato per la storica fuoriuscita dal Bundestag o per la riconferma in un terzo esecutivo guidato da Angela Merkel.

Da ormai circa tre anni, infatti, l’FDP naviga poco sotto la soglia di sbarramento, a cavallo tra il 3 e il 4%. Circa due terzi degli elettori del 2009 ha progressivamente abbandonato il partito, ricollocandosi tra i verdi, i democristiani o i pirati. Ora, anche gli euroscettici di Alternative für Deutschland sembrano in grado di sottrarre voti preziosi agli acciaccati liberali.

Al Congresso federale, tenutosi lo scorso fine settimana a Norimberga, l’FDP ha cercato di darsi una nuova veste. Addio ai classici slogan anti-tasse e alle campagne (finite in un nulla di fatto) per una riforma integrale del sistema fiscale. Alleggerire il fisco su imprese e persone fisiche non è più in linea con lo spirito dei tempi, fatto di austerità e rigore di bilancio. In Germania, insomma, anche il partito alleato della Cancelliera è dovuto venire a più miti consigli, accettando di dare la precedenza al consolidamento dei conti pubblici. D’ora in poi i liberali sembrano volersi accontentare di una lotta contro chi, come l’opposizione rosso-verde, le tasse vuole addirittura aumentarle, sia sui redditi, sia sui patrimoni.

Eppure, la difesa delle tradizionali clientele (artigiani, piccoli imprenditori, commercianti) non può passare solo attraverso un messaggio negativo – il no secco a nuove imposte – ma necessita di una base più solida. Spulciando il programma approvato con un solo voto contrario dall’assemblea congressuale, si ha l’impressione che l’FDP voglia recuperare credibilità combinando due aspetti: da un lato, i liberali, forse ancor più dei democristiani, intendono farsi interpreti della proverbiale cultura della stabilità (Stabilitätskultur) esportata in tutta Europa come ricetta per affrontare la crisi. Di qui si spiega l’enfasi sull’abbattimento del debito pubblico e sulla riduzione della spesa, l’accento posto su una politica monetaria che si limiti a contenere l’inflazione, l’esclusione di ogni ipotesi di eurobond o fondo di riscatto dei debiti sovrani. D’altro canto, però, l’FDP cerca anche di rendersi appetibile presso un elettorato più vasto, non necessariamente vicino al pensiero liberale.

In questa chiave si spiega il dibattito sul salario minimo. Da tempo l’opinione pubblica tedesca riflette sull’opportunità di introdurre o meno un salario minimo generalizzato per tutto il Paese. Ad oggi esistono solo specifici accordi tra le parti sociali in alcuni settori e in certe regioni. La CDU/CSU ha proposto di introdurre un salario minimo anche laddove manchino tali accordi. Ora l’FDP, dopo mesi di aspre discussioni interne, ha scelto di seguire i propri alleati. Nel far propria l’idea dei colleghi di governo, il leader dei liberali e attuale Ministro dell’Economia, Philipp Rösler, ha quasi rischiato di spaccare il partito. Solo il 57% ha infatti votato a favore, mentre il 43% è rimasto fedele alla linea tradizionale del partito, secondo la quale non sarebbe compito dello Stato intervenire nel processo di formazione dei prezzi determinato dal mercato. Nonostante le forti contrapposizioni, v’è comunque chi vorrebbe procedere a passi spediti verso un’attuazione della proposta già prima della fine legislatura. Un balzo in avanti che rischia di provocare un terremoto in un partito in cerca di una nuova identità.

Angela Merkel vincerà? Il bivio del partito liberale tedesco

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