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Pubblichiamo un articolo del dossier “Lezione egiziana, Usa in Medio Oriente, F35” di Affari Internazionali.

Quanto sta accadendo lungo il Nilo non si presta a facili letture e gli analisti brancolano tra golpe popolare, colpo di stato, sollevazione popolare e rivoluzione. Mai come in quest’occasione le consuete categorie della scienza politica si rivelano inadeguate. A Washington e nelle capitali europee si è evitato il termine golpe, preferendo “impeachment popolare” o “golpe rivoluzionario”, a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, dell’ambiguità della situazione.

Per gli Stati Uniti trovare una definizione appropriata è un problema ancora più spinoso. Una legge obbliga, infatti, l’amministrazione americana a sospendere ogni forma di aiuto non-umanitario a un governo salito al potere con un colpo di stato.

Nello specifico caso egiziano, ciò avrebbe portato al congelamento di aiuti per un ammontare di un miliardo e mezzo di dollari l’anno, l’85% dei quali destinato a coprire il 20% del bilancio dell’esercito. Temendo per la stabilità del paese e in virtù del suo saldissimo rapporto con le forze armate, Washington ha evitato di far scattare la clausola citata, ma ha chiesto il rapido ritorno a una transizione democratica gestita da istituzioni civili.

Salda alleanza

Secondo buona parte dei manifestanti egiziani, gli Stati Uniti sarebbero stati i principali alleati dei Fratelli Musulmani, contribuendo a rallentarne la caduta, ma la realtà è più complessa. Effettivamente nel corso dell’ultimo anno vi è stata da parte dell’amministrazione statunitense un’apertura ufficiale di credito verso la democrazia di stampo islamista incarnata dai Fratelli musulmani.

Allo stesso tempo, si è forse dimenticato troppo in fretta la frase con cui Barak Obama gelò Mohammed Morsi all’indomani delle manifestazioni anti-americane del settembre 2012: “L’Egitto non un alleato, ma nemmeno un nemico”.

Il fulcro della politica statunitense verso il Cairo è stato, ed è tutt’ora, garantire la prosecuzione di una transizione democratica. È difficile pensare che a Washington si preferisca Mohamed Mursi a Mohamed El-Baradei. La realistica presa d’atto dei rapporti di forza ha indotto però gli Stati Uniti a tentare di creare una relazione costruttiva con la maggioranza di turno, mantenendo comunque saldo l’asse portante delle relazioni con il Cairo: l’alleanza con i militari. Una strategia prudente che ha permesso a Washington di preservare i propri interessi in Egitto senza dover scegliere, come in passato, tra il sostegno alla stabilità e la promozione della democrazia.

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Giorgio Musso è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Genova.

Cosa dobbiamo imparare dall’Egitto

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