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Cinquant’anni fa, Giulio Natta venne insignito del premio Nobel per la chimica. Il polipropilene, che sul mercato arrivò come moplen dopo le mille traversie della Montedison, è ancora oggi un prodotto che continua a produrre una parte significativa degli utili di LyondellBasell, l’industria chimica texana che oggi ne detiene i diritti. Ovvero, quasi sessant’anni dopo l’invenzione di Natta c’è chi continua a guadagnare con quell’idea.

L’Italia degli anni Sessanta è un ricordo lontano. La struttura industriale che si diede il Paese nel dopoguerra è stata smantellata. Sono stati cambiamenti indotti dal mercato. Oggi da più parti si avverte la necessità di un nuovo ruolo industriale dell’Italia, che vada oltre i vuoti richiami di categoria e sappia essere sistemico.

Nel dicembre di cinquant’anni fa, Giulio Natta venne insignito del premio Nobel per la chimica. Nove anni prima, l’11 marzo del 1954, un giovedì, il professor Natta, al termine di una giornata di intenso lavoro al Politecnico di Milano, aveva appuntato nella propria agenda da tasca una breve nota: “Fatto il polipropilene”. Una frase dirompente nella sua banalità: fatto il polipropilene, come noi potremmo scrivere, “Ore 15, dentista Rossi”. L’invenzione di Natta, al termine di un percorso di ricerca iniziato alla vigilia della Seconda guerra mondiale, rileva ancora ogginon solo perché è valsa l’unico premio Nobel nella chimica mai vinto da un italiano, ma anche perché capace di evidenziare le potenzialità che la ricerca industriale può rivestire per lo sviluppo sia di un Paese sia di un gruppo privato, come in questo caso furono
l’Italia e la Montedison.

Il polipropilene, che sul mercato arrivò come moplen (qualcuno lo ricorderà pubblicizzato da Gino Bramieri nell’Italia del boom degli anni Sessanta), dopo le mille traversie della Montedison è ancora oggi un prodotto che continua a produrre una parte significativa degli utili di LyondellBasell, l’industria chimica texana che oggi ne detiene i diritti. Ovvero, quasi sessant’anni dopo l’invenzione di Natta – ed è questa la riflessione che vale la pena di fare – c’è chi continua a guadagnare con quell’idea. L’Italia degli anni Sessanta è un ricordo lontano. La struttura industriale che si diede il Paese nel dopoguerra è stata smantellata. Grandi gruppi di allora non esistono più: Montedison, l’Iri, gran parte dell’Olivetti. Fiat vive grazie all’acquisizione di Chrysler e alla presenza sul mercato americano. Sono stati cambiamenti indotti dal mercato e nessuno oggi sente la mancanza di un’Iri. Però, da più parti si avverte la necessità di un nuovo ruolo industriale dell’Italia, che vada oltre i vuoti richiami di categoria e sappia essere sistemico.

Nel pieno rispetto dell’iniziativa privata, al governo spetta un compito di indirizzo e di supervisione che appare al momento non allineato alla struttura di quello che continua a essere il secondo Paese manifatturiero in Europa. La realtà delle piccole emedie industrie, che sono state fondamentali negli ultimi trent’anni (innovazione, occupazione, export), oggi rischia di essere inadeguata a un mercato globalizzato. Andare a vendere o a produrre all’estero impone strutture manageriali e capitali adeguati: l’Italia è invece il Paese del “piccolo e bello”, dell’imprenditore ricco e dell’impresa povera (sottocapitalizzata). Tutto questo rischia di divenire un limite strutturale pesantissimo per aziende che troppo spesso si finanziano
solo attraverso il sistema bancario. Purtroppo esistono, inoltre, anche a livello pubblico, populistiche resistenze a un impegno concreto nell’industria. È evidente che cambiare la struttura produttiva di una nazione non è impresa che spetta a un governo, ma la visione e l’indirizzo, la creazione di opportunità, sì.

Un altro polipropilene è possibile? Certo che sì. Natta lavorava con i chimici tedeschi a Ferrara e a Ravenna negli anni Trenta e raggiunse l’obiettivo più di vent’anni dopo. Oggi, cos’ha una simile prospettiva in Italia? Cosa può far pensare che fra cinquant’anni sarà ancora in grado di produrre ricchezza? Ci sono al lavoro molte piccole imprese e tra loro probabilmente c’è già chi troverà la soluzione.

Ma ci sono anche due grandi progetti in grado di modificare le prospettive dell’Italia Spa, progetti nei quali il pubblico ha giocato attivamente, anche se poi i criteri di realizzazione sono mixati con visioni privatistiche. Il primo, nell’Italia del tempo perso – dove la riforma del Titolo V della Costituzione si è trasformato in un potere di veto distribuito con generosità – è la realizzazione dell’Istituto italiano di tecnologia a Genova, affidato a Roberto Cingolani. In quella che era una polverosa sede delle imposte dirette si è realizzato uno dei centri più avanzati al mondo nella robotica, capace di attirare scienziati giovani e ambiziosi da ogni parte del globo, in una struttura retta da una governance trasparente. È un progetto unico per l’Italia, di grande impatto internazionale e con prospettive tutte da definire, ma ricco di fascino.

Diverso invece è quanto si sta realizzando a Cameri, in provincia di Novara. L’Italia – premier Prodi, Andreatta ministro della Difesa – nel 1996 iniziò ad avvicinarsi agli Stati Uniti per lo sviluppo e la realizzazione di un nuovo modello di cacciabombardiere. È un settore difficile: si tratta di sofisticate macchine da guerra. Ma rifiutare l’argomento non risolve la questione, forse solo l’allontana. L’Italia oggi è un partner primario nel progetto dell’F-35 realizzato da Lockheed Martin. Il solo nome Lockheed richiama pagine nerissime della storia repubblicana. E allora? Per quanto tempo ancora davanti a certi fatti la soluzione sarà in bilico tra strali populistici e uno sguardo voltato dall’altra parte? Il progetto F-35, passato attraverso 17 anni di governi di ogni colore, è un driver di sviluppo. A Cameri si sta realizzando l’unico hub europeo per la manutenzione di questo velivolo. Il governo italiano ha investito nell’impianto 2,5 miliardi di dollari. I ricavi previsti, nell’arco del piano, sono stimati in 8,6 miliardi di dollari, con sviluppi possibili per ulteriori 4 miliardi. Alenia, azienda di Stato, sarà la prima beneficiaria dello sviluppo di questo progetto – che ha un orizzonte di cinquant’anni da oggi – ma ci sono 26 altre imprese interessate dalla partnership con Lockheed, che diventano 90 considerando i lavori subappaltati, in questo caso soprattutto piccole imprese. Con un unico denominatore comune: l’elevato livello della produzione.

Perseguire un progetto internazionale di questo genere, sebbene in un settore con evidenti implicazioni etiche, è la via per implementare le conoscenze e affermare una leadership tecnologica che, anche nelle piccole dimensioni aziendali, deve essere quotidianamente in grado di confrontarsi – nella performance del prodotto, non sul prezzo – con i concorrenti di ogni angolo del mondo.

Stefano Righi
Giornalista del Corriere della Sera

(articolo tratto dall’ultimo numero della rivista Formiche)

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