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Pubblichiamo un articolo del dossier “Disputa con l’India” di Affari Internazionali

Sul ridicolo di cui ci siamo coperti nell’affaire dei marò non vale la pena intrattenersi. I media ne hanno abbondantemente parlato e non c’è nessun commentatore che giustifichi il comportamento del governo italiano. Inutile rigirare il dito nella piaga.

Piuttosto occorre trovare dei rimedi per salvare il salvabile e in particolare per proteggere due vite umane. Questo l’obiettivo principale. Occorre poi pensare ad una strategia che ci metta al riparo dal ripetersi di errori analoghi in futuro, quantunque meccanismi e calcoli possano essere sempre scardinati da previsioni errate e dal pressapochismo di coloro che istituzionalmente sono incaricati di prendere le decisioni. Su quest’ultimo punto è già intervenuto Stefano Silvestri su questa rivista, insistendo sulla necessità di un più efficace apparato decisionale nell’ambito della Presidenza del Consiglio e operante sotto la direzione del Capo del Governo.

Delitto e castigo
I due fucilieri saranno ben presto tradotti dinanzi ad una Corte speciale che dovrà giudicare il caso. Qui la partita si gioca su due fronti: la procedura e il merito.

Quanto alla prima, l’Italia potrà riproporre l’eccezione d’ incompetenza delle corti indiane. Ma sembra una battaglia già persa in partenza. Come potrà la Corte speciale discostarsi da quanto ha già statuito la Corte Suprema nella sentenza del 18 gennaio, che ha respinto tutte le eccezioni dell’Italia?

Il punto si sposta quindi sul merito e sulla difesa dei due fucilieri di marina. Due le questioni centrali: l’assunzione e valutazione delle prove, che furono frettolosamente e unilateralmente raccolte nel porto di Kochi; e il nomen del crimine: omicidio colposo, volontario o addirittura atto di terrorismo marittimo in applicazione della Convenzione del 1988 sul terrorismo marittimo, che fu negoziata proprio a Roma.

A parte il balletto sulle assicurazioni date in materia di non applicazione della pena di morte, occorre ricordare che questa tuttora esiste in India, anche se raramente applicata, e viene eseguita mediante impiccagione. Nel fare marcia indietro e nello zelo di riconsegnare i marò all’India ci si è dimenticati di un principio affermato dalla nostra Consulta nel 1996, che ha imposto di non consegnare il reo ad un paese dove è prevista per il delitto commesso la pena di morte, anche qualora siano date assicurazioni che la pena di morte, quantunque comminata, non verrà eseguita. Il caso riguardava gli Stati Uniti e si suppone che fosse ben conosciuto dai valenti giuristi che assistono la compagine governativa.

Trattato Italia-India
A supporre che i marò siano condannati alla pena della reclusione (ma ci auguriamo di no e che la loro difesa possa provarne l’innocenza), resta la possibilità offerta dal Trattato Italia- India sul trasferimento delle persone detenute, sul modello di analoghi accordi che l’Italia ha stipulato con un discreto numero di Stati, a livello bilaterale e multilaterale (Consiglio d’Europa).

Il Trattato prevede il trasferimento del condannato, sempre che questi non abbia manifestato una volontà contraria. Lo Stato ricevente deve continuare l’esecuzione della condanna inflitta dallo Stato trasferente, ma può adeguare la pena a quella prevista per lo stesso reato nell’ordinamento dello Stato ricevente. Sono consentiti anche provvedimenti di clemenza, poiché ciascun Stato contraente può accordare la grazia, l’amnistia o l’indulto.

Vi è però una condizione per il trasferimento del condannato. La sentenza che lo riguarda deve essere definitiva e quindi può accadere che, una volta condannato in primo grado, il condannato non possa essere trasferito se questi o il pubblico ministero interponga appello. Ma qui si dovrà attendere il decreto istitutivo della Corte speciale. In ogni caso il detenuto non può essere trasferito nelle more del giudizio.

Il Trattato è stato concluso nell’agosto del 2012 e nel dibattito parlamentare si parlò di “polizza assicurativa” qualora l’India non avesse riconosciuto la giurisdizione italiana. Ma il Trattato, che entra in vigore il primo giorno del secondo mese dalla data dell’ultima ratifica, è operativo? Non risulta, stando ai siti specializzati. Quindi s’impone una rapida azione in tal senso.

Ruolo dei team armati
La lotta alla pirateria è attuata mediante navi da guerra. Ma niente vieta alle navi commerciali di avere a bordo team armati per difendersi dagli attacchi dei pirati. Ormai l’esperienza dimostra che bastano pochi uomini per dissuadere i pirati dall’attaccare le navi e da quando si è diffusa la pratica di avere uomini armati a bordo gli attacchi e le catture sono fortemente diminuite.

Nel 2011 l’Italia ha adottato una legge in virtù della quale sulle navi battenti bandiera italiana possono essere imbarcati team militari e guardie armate (o contractor nel gergo ormai in uso). Gli armatori devono imbarcare team militari a preferenza di quelli privati e debbono sopportare il costo dei servizi resi, che viene trasferito al Ministero della Difesa.

Da un paio di giorni qualche foglio ha cominciato a parlare di eliminare i team militari, lasciando all’armatore la possibilità di imbarcare solo guardie giurate allo scopo di evitare il ripetersi di incidenti tipo quello della Enrica Lexie. Niente di più errato. I team militari hanno dato ottima prova nel respingere gli attacchi pirateschi e l’imbarco di team militari non è una specificità solo italiana.

Legge da cambiare
Piuttosto occorre emendare la legge istitutiva poiché l’attuale comporta un dualismo –comandante della nave che decide la rotta, team militare soggetto alla regole d’ingaggio del Ministero della Difesa- che è all’origine dell’incidente con l’India. Se previamente consultato, il Ministero della Difesa avrebbe certamente ingiunto alla Enrica Lexie di proseguire la rotta e gli indiani non si sarebbero azzardati ad abbordare una nave straniera in alto mare.

Tra l’altro, chi propone di escludere i team militari per evitare qualsiasi responsabilità italiana in caso di incidente mostra di aver poca dimestichezza con il diritto internazionale. Non solo perché all’Italia, in quanto Stato che consente ai contractor di operare, incombe un obbligo di sorvegliare che non siano commesse violazioni gravi, ma anche perché, in caso di incidente, non può lavarsene le mani e lasciare nave ed equipaggio (inclusi i contractor) privi di tutela.

Natalino Ronzitti è professore di Diritto Internazionale e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.

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