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Giorgio Napolitano ha affidato a Pier Luigi Bersani un incarico condizionato. Ma sembra proprio che gli abbia messo condizioni impossibili. I numeri dicono che al Senato non c’è la maggioranza. Il leader del Pd ha davanti a sé il precedente del 1994 quando Silvio Berlusconi passò a Palazzo Madama con il voto risicato grazie ad alcuni senatori a vita. Durò otto mesi. Oggi come oggi non sarebbe poi un tempo così breve. Tutto sommato, consentirebbe di arrivare di riffe o di raffe alle elezioni europee la primavera prossima. Ma con quale capacità di governare? Le cose erano brutte anche nel 1994, con la lira svalutata per la seconda volta e ridotta di circa il 40% rispetto al crac di due anni prima (bisognerebbe sempre ricordarlo a chi vaneggia sul ritorno alla liretta). Oggi, però, la crisi economica è infinitamente peggiore. E c’è il rischio che anche una piccola mosca come Cipro scateni una tempesta globale.

Dunque, la strategia ufficiale del Pd, quella di inseguire i grillini e sperare di racimolare voti caso per caso, non ha futuro. Il capo dello Stato lo sa e proprio per questo ha posto la conditio sine qua non: fiducia piena nei due rami del Parlamento. L’unico modo di ottenerla è che Bersani, facendo appello alla propria formazione da comunista emiliano, scelga il pragmatismo togliattiano, anche a costo di subirsi la solita litania sul cinismo, sugli inciuci e via di questo passo. Del resto, con un partito di impolitici, una opinione pubblica che si titilla sull’antipolitica senza sapere che intanto sulla sua testa i veri poteri (non più local-nazionali) fanno politica eccome, o la cosiddetta classe dirigente economica che liscia il pelo al sovversivismo, una nazione non va lontano. Occorre leadership e l’audacia di un leader.

Fuor di metafora, non ci sono alternative a una intesa con il Pdl e con Monti. Può non produrre un governo di grande coalizione (oggi come oggi sembra irrealistico), ma una soluzione alla Andreotti metà anni ’70 che riuscì ad affrontare crisi gravissime, tra l’altro anche il salvataggio dell’Italia da parte del Fmi. Non per trovare un modello, ma per ragionare su un precedente storico. In tal caso, Bersani dovrebbe tornare nelle retrovie e lasciare Palazzo Chigi a una “personalità condivisa”, come si suol dire, anche interna o vicina al Pd. La partita per il presidente della Repubblica, poi, dirà se l’intesa sarà larga e strategica, cioè se si arriverà a una vera tregua nella guerra civile permanente.

Il Pd perderà pezzi a sinistra, anzi potrà persino sfasciarsi, si dice. E Beppe Grillo avrà una prateria di consensi sulla quale pascolare. Sul Movimento 5 Stelle si vedrà. In altri Paesi europei, classi politiche più strutturate hanno saputo cogliere la sfida populista e reagire. Persino in Grecia sono riusciti a tenere Syriza in naftalina (anche se Alexis Tsipras ha un testa politica incomparabile con quella di Grillo).

Quanto al Pd, è palesemente già spaccato e va visto come un partito di transizione verso la riorganizzazione delle forze progressiste. Se a sinistra si forma un partito intelligente che canalizza la protesta in modo razionale, è un bene per la democrazia. L’anno prossimo, quando si arriverà al voto, di fronte a un elettorato mobile come non mai nel dopoguerra, ci sarà una nuova offerta politica a sinistra e a destra, favorita proprio dalla tregua. Un altro bene per il sistema politico italiano. Bersani non vuol fare il Martinazzoli del Pd, dicono i suoi. Giusto, ma le cose sono diverse. Lui può fare il John Smith del partito laburista, preparare la strada per la svolta nel centro-sinistra.

Stefano Cingolani

Bersani trionferà se non sarà premier

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