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Lunedì scorso, alla presentazione alla Camera dei Deputati della biografia su Giorgio Napolitano di Paolo Franchi, Eugenio Scalfari ha illustrato bene le prerogative che attualmente spettano al capo dello Stato. La Costituzione, infatti, non parla né di consultazioni, né di vincoli d’incarico. In parole povere, il presidente è pienamente autonomo nella designazione del primo ministro.

Ciò non significa quasi nulla, quando il risultato elettorale è schiacciante, mentre è dirimente qualora la creazione della maggioranza debba essere realizzata in fieri. D’altra parte, fatto degno di nota, il governo è in carica non dal momento della fiducia ma da quando avviene il giuramento, cerimonia che precede il confronto parlamentare.

Dico questo perché in passato non sono mancati problemi e anomalie. L’esempio per eccellenza è stato il gabinetto presieduto da Tambroni nel 1960 che non ebbe la fiducia piena del Parlamento, ma rimase in carica per volontà di Gronchi fin quando i moti di piazza a Genova non lo costrinsero a dimettersi, chiudendo così per decenni aperture a destra.

Orbene, cosa accadrà adesso?

Mi pare che vi siano tre ipotesi sul tavolo di Napolitano. La prima è il conferimento dell’incarico al partito della coalizione di maggioranza relativa alla Camera. In questo caso l’opzione cadrebbe su Bersani o su un’altra figura indicata dalla segreteria del Pd, naturalmente apprezzata dal presidente. Viste come sono le cose attualmente, in particolare le dichiarazioni negative del M5S, è improbabile giungere in tal modo alla fiducia.

La seconda ipotesi è un incarico a Beppe Grillo o a una persona in condizione di raccogliere il consenso del suo movimento. Nel qual caso, tuttavia, non si capisce per quale motivo Pd e Pdl dovrebbero dare la fiducia.

La terza ipotesi è quella che sembra crescere di ora in ora. Vale a dire il conferimento dell’incarico a un tecnico che possa ottenere l’appoggio di M5S e del PD o di PD e PDL.

Ora, la prima di queste soluzioni ha dei pregi evidenti. Il più rilevante è che coinvolge in un esecutivo due forze vincenti e maggioritarie, ossia PD e Grillo.

Inoltre, a ben vedere, non si avrebbe realmente un governo tecnico, bensì un esecutivo al servizio di un accordo politico tra due forze eterogenee.

L’ipotesi tecnica avrebbe, invece, un effetto distruttivo, se andasse avanti la seconda ipotesi, paventata da Grillo, di una maggioranza PD-PDL, magari con l’apprezzato Passera presidente del Consiglio. In questo caso, infatti, l’assenza del M5S farebbe comodo soltanto allo stesso Grillo, dandogli la possibilità di giocare da opposizione al sistema nel sistema, aumentando il suo consenso antipolitico.

Per fortuna, non sembra esserci apprezzamento nel PD alla proposta di governissimo che Berlusconi e i suoi continuano a fare. Perché, poi, piaccia molto al centrodestra, vedi Ferrara, e non piaccia a sinistra, vedi D’Alema, è fin troppo chiaro. La base elettorale di Berlusconi e di Grillo è la stessa e la modalità di recuperare il consenso attraverso la partecipazione emotiva di massa è identica in entrambi. Mentre, viceversa, il PD favorisce la rappresentatività mediata da regole che pagherebbe un prezzo altissimo nel gioco contrapposto Grillo-Berlusconi.

Se, quindi, l’unico scenario valido è un esecutivo tecnico Grillo-Bersani, perché non affidare l’incarico a Monti?

In tal caso si avrebbe un sicuro allargamento della maggioranza e una garanzia di continuità nella gestione dell’Italia. Una situazione che, a ogni buon conto, permetterebbe anche di prendere tempo, non togliendo nulla ai vincitori e ai vinti. Oltretutto, basterebbero poche riforme (legge elettorale, riduzione dei parlamentari, eccetera) e poi si potrebbe tornare al voto, magari con una maggioranza precisa.

Il problema generale rimane, ciò nondimeno, a prescindere da un accordo quasi impossibile sulla legge elettorale, ed è il seguente.

Che cosa significa il consenso popolare dato a Grillo? Quale risposta la politica può dare?

Semplice. In democrazia non si può stabilire un principio di selezione per il gusto, come vorrebbero alcuni. Chi prende i voti, governa. Se il M5S fosse un partito normale, riceverebbe l’incarico normalmente, dopo il fallimento del tentativo Bersani. Ebbene, non c’è ragione perché non sia così nel caso dei grillini. La giustificazione quale sarebbe, infatti, che non è un partito normale?  Normale per chi?

Ecco perché la soluzione della prima questione dipende dalla risposta alla seconda, che è questa: Napolitano dovrebbe conferire l’incarico a Beppe Grillo. Dopodiché, gli altri votino le riforme essenziali che egli presenta e che nella scorsa legislatura incomprensibilmente non hanno fatto.

Se a un certo punto dovesse esserci una tendenza alla follia del M5S, ad esempio la richiesta di retrocedere a una società agraria o, più banalmente, la proposta dissennata di uscire dall’Euro, sarebbe comunque sufficiente a PD e PDL togliergli la fiducia per chiudere la partita. E Grillo perderebbe probabilmente le elezioni, essendosi dimostrato incapace di risolvere i problemi concreti degli italiani.

 

Come dare scacco matto a Beppe Grillo

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