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Una delegazione di alti funzionari americani sarà questa settimana a Riad per incontrare i colleghi sauditi al fine di continuare le discussioni sul potenziale accordo di normalizzazione tra il regno del Golfo e Israele. Contemporaneamente in Arabia Saudita ci saranno anche funzionari palestinesi, parte in causa dell’accordo, anche se indirettamente, perché dovrà prevedere anche concessioni israeliane nei confronti dei vicini arabi.

Impegno continuato di Washington

La delegazione americana ha un taglio tecnico: è guidata da Brett McGurk, che i media statunitensi chiamano “Middle East czar” della Casa Bianca, e con lui ci sarà l’assistente segretaria di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, Barbara Leaf. I due saranno a Riad a poco più di un mese dalla missione del Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, pensata con lo stesso obiettivo. È la dimostrazione della determinazione continua di Washington nel cercare di mediare un accordo su cui l’Arabia Saudita è ancora sfuggente (o forse meglio dire “contrattante”). Anche il segretario di Stato Antony Blinken ha visitato Riad con lo stesso obiettivo, a giugno. Gli americani potrebbero essere interessati a chiudere l’affare entro il 2024; magari per i primi mesi dell’anno nuovo, in modo che l’intesa possa essere sfruttata in campagna elettorale (anche con le constituency ebraiche e arabe americane) senza impatti eccessivi al ridosso del voto.

Incontri cruciali a Riad

La visita di McGurk e Leaf coinciderà con quella di una delegazione palestinese guidata dal segretario generale del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Hussein al-Sheikh, che sarà nella capitale saudita per discutere ciò che Ramallah spera di ottenere dall’accordo di normalizzazione. Non è chiaro se i due gruppi operativi si incontreranno (anche in via confidenziale è lontana dai media), ma la sovrapposizione e le circostanze politico-temporali fanno pensare che questo doppio passaggio possa essere un momento significativo nel processo.

Se Israele vuole evitare eccessive magnificenze pubbliche — e d’altronde il caso Cohe/Mangoush spiega il perché sia meglio state lontani dagli eccessi — l’Arabia Saudita vuole capitalizzare. Il regno cerca una sovrapposizione di interessi, da una parte operativi e dall’altra di immagine. La questione del nucleare saudita è un buon paradigma: ottenere l’aiuto americano e l’avallo israeliano (o viceversa) sulla costruzione di un programma nucleare civile serve a Riad per mettere un puntello in più alla Vision 2030 — la strategia con cui l’erede al trono, il primo ministro Mohammed bin Salman, sta guidando la transizione energetica, economica e culturale del regno. Anche dal punto di vista dell’immagine. Contemporaneamente permette alla corona saudita protettrice dei luoghi sacri di ascoltare le richieste palestinesi, farsene portavoce davanti al mondo arabo e alle proprie collettività, ma anche di poter accettare compromessi quando servirà cedere sulle richieste palestinesi.

Condizioni saudite per normalizzazione

L’Arabia Saudita è pronta a rinunciare alla sua posizione pubblica a lungo mantenuta contro la normalizzazione con Israele in assenza di una soluzione a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ma non è comunque previsto che Riad accetti un accordo con Gerusalemme che non includa un significativo progresso verso la sovranità palestinese, secondo funzionari informati sulla questione. Tanto più dopo che la scorsa settimana, tre fonti diverse hanno dichiarato al Times of Israel che l’Autorità Palestinese (Ap) sta cercando passi “irreversibili” che faranno avanzare la sua richiesta di stato nel contesto delle negoziazioni per un accordo di normalizzazione tra Israele e l’Arabia Saudita. I passi proposti includono il sostegno degli Stati Uniti al riconoscimento dello stato palestinese alle Nazioni Unite, la riapertura del consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme che ha storicamente servito i palestinesi, l’annullamento della legislazione del Congresso che caratterizza l’Autorità come un’organizzazione con infiltrazioni terroristiche, il trasferimento del territorio della Cisgiordania dal controllo israeliano a quello palestinese e la demolizione di avamposti illegali in Cisgiordania.

Sfide per l’Autorità Palestinese

Questi passaggi rappresenterebbero importanti vittorie per la Palestina, ma (anche se sono molto lontani dalle richieste più ampie sollevate da Ramallah da svariati anni) sembrano più che altro ganci negoziali: si parte alti per raggiungere più facilmente qualcosa di concreto. L’Autorità ha ridotto le sue capacità politiche internazionali e alcuni avvenimenti — come per esempio gli Accordi di Abramo — l’hanno marginalizzata.

Durante un incontro la scorsa settimana, Hussein al Sheikh ha già parlato con Leaf e ricevuto in gran parte una risposta fredda, secondo le ricostruzioni fornite dai palestinesi. Funzionari dell’amministrazione Biden avrebbero già suggerito all’Autorità di moderare le richieste e a indirizzarle verso invece Israele. Servirebbe a non mettere in difficoltà Washington, ma anche Riad, passando parte della patata bollente in mano israeliana. Il governo di Benjamin Netanyahu, di destra e molto duro sulla questione palestinese, in questa fase storica ha poche affinità con l’amministrazione democratica di Joe Biden. La dinamica in corso sarebbe indirizzata a metterlo alle strette, ma anche far ricadere su Gerusalemme le colpe di un accordo poco amichevole con i palestinesi ha una sua ratio. Per l’esecutivo israeliano sarebbe una sorta di successo davanti al suo elettorato, e allo stesso tempo Biden e bin Salman potrebbero rivendere politicamente la questione come frutto di necessità più ampie e compromesso accettabile.

Opposizione interna

È quasi certo infatti che importanti gesti nei confronti dei palestinesi saranno sabotati da alcuni lati del governo di Netanyahu. Il ministro delle Finanze, il nazionalista sionista Bezalel Smotrich, ha dichiarato la scorsa settimana che l’idea che Israele faccia concessioni ai palestinesi come parte di un accordo di normalizzazione è una “finzione”. E allora il focus va sulle richieste saudite.

Mentre un accordo dovrebbe includere un componente palestinese, la maggior parte delle richieste saudite è diretta agli Stati Uniti, ed è su queste che si sono concentrate le negoziazioni finora tra l’amministrazione Biden e il principe ereditario. Oltre al nucleare civile, Riad sta cercando un trattato di sicurezza reciproca lche obbligherebbe gli Stati Uniti a difendere l’Arabia Saudita in caso di attacco, e contemporaneamente vuole avere maggiore agilità nell’acquistare armi più avanzate da Washington. Certi risultati darebbero ulteriore peso a bin Salman. 

In cambio, gli Stati Uniti cercano che il regno riduca significativamente i suoi legami economici e militari con Cina e Russia e rafforzi la tregua che ha posto fine alla guerra civile in Yemen. Su tutto, Washington ha però un problema a Capitol Hill. Un nuovo trattato tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita richiederebbe il sostegno di due terzi del Senato: una sfida considerevole data la riluttanza dei Repubblicani a concedere a Biden una vittoria in politica estera e le preoccupazioni dei democratici sulla situazione dei diritti umani a Riad, nonché lo scontento bipartisan della vecchia guarda congressista (abituata a gestire le relazioni con il regno in modo più ordinato rispetto al passo dato da bin Salman).

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