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Articolo tratto dal numero 54 (Dicembre 2010) della rivista Formiche

Un filo giallo, un filo rosso e un filo nero. Snodandoli e riannodandoli attorno alla millenaria araldica vaticana potremmo forse formulare il colore più vero della bandiera della Santa Sede.

Un filo giallo. I mille casi tra cronaca e storia che da Papa Alessandro Borgia a monsignor Marcinkus hanno segnato le vicende politico-finanziarie italiane, gettandole su uno sfondo di intrighi di corte e delibere di consigli di amministrazione, tesori nascosti e fondi neri, fughe repentine verso Castel Sant’Angelo o in paradisi fiscali semitropicali, complesse manovre internazionali, “banchieri di Dio” e sicari, giannizzeri e fondi neri, fruscii di tonache, passi felpati, incontri segreti.

Un filo rosso. La teologia che si fa storia, che, carne della carne del pensiero, entra in rapporto di sviluppo critico con la modernità. È la tradizione filosofica occidentale che si fa storia dell’animo umano, e che, stando in contatto con le sue contraddizioni feconde, consente di interpretare la storia dell’umanità tutta. È l’universalismo che continuamente rompe il guscio del relativismo – e relativizza così l’assolutizzarsi dell’Occidente, e in particolare della sua espressione individualistica e capitalistica.

Un filo nero. È come il sottofondo a tutto il resto, che vi si intreccia e rende la questione del mutamento nella Chiesa una questione politica, soggetta alle oscillazioni del ciclo politico-sociale: comunità di base, Chiesa del dissenso, dibattiti postconciliari e relativa divisione per fazioni ermeneutiche, quel “mordersi e divorarsi a vicenda” che San Paolo e lo stesso papa Benedetto XVI hanno sottolineato, e che oggi si gioca sullo sfondo di un processo di secolarizzazione che rimette in circolo l’anticlericalismo, reso ancora più viscerale dai terribili casi di abusi sessuali e di pedofilia emersi recentemente.

La pubblicistica che in questo momento ho sottomano sembra concentrarsi sul filone giallo, che gode di un grande successo editoriale. Se a ciò si aggiunge, come sottolineano gli stessi esperti di parte cattolica, che la struttura della comunicazione vaticana non regge la concorrenza, in termini di postmoderna fascinazione mediatica, di altre centrali informative, è evidente che la domanda “che cosa accadrà mai li dietro?” diventa quasi obbligatoria per una lettura specialistica di tipo dietrologico. In pratica, per quel giornalismo di inchiesta la cui rinascita è stata a lungo evocata, per assumere alla fine le forme americanizzanti della personalizzazione e dello scandalismo e concentrare (in modo commercialmente rassicurante) il fuoco polemico, tra i mille e mille poteri economico-finanziari che avvolgono il mondo, su quello che fa capo allo Stato del Vaticano. Ma non vi è quasi autore che si occupi di questa rilettura revisionista della Chiesa senza rendere omaggio in qualche parte ad una “diversa Chiesa”, e che lo faccia contrapponendo a papa Benedetto XVI il predecessore Giovanni Paolo II.

Ecco perché il “giallo” diventa automaticamente e sistematicamente “nero”. Se infatti guardiamo oltre all’ideologia, la scissione tra la carne e lo spirito del magistero della Chiesa viene impugnata con intenzioni chiaramente derisorie e, letteralmente, depredatorie. La Chiesa, infatti, dovrebbe spogliarsi dei propri beni terreni, ritornare alla purezza catacombale, lontana dal luccicante mondo terreno; essa sarà tanto più grande, quanto maggiormente vivrà nascosta nell’intimo delle coscienze. Il sarcasmo di una società borghese laica, pienamente mondana e weberianamente disincantata, che chiede alla Chiesa di farsi interiore e povera, è evidente. Il dichiarato utilizzo, da parte di alcuni intellettuali, dei gravissimi casi di pedofilia come “nuova crisi delle investiture” – quindi come caso scatenante di un neoriformismo anticattolico – mi pare pienamente in linea con l’idea di una neo-Chiesa secolarizzata, dissolta nell’esperienza coscienziale, senza mediazioni confessionali, e per ciò stesso meno autonoma rispetto alle manifestazioni del mondo moderno, e in definitiva più a immagine e somiglianza di un’ideologia soggettivistica radicale di rito laico e progressista. Insomma, uno strano animale, qualcosa a metà tra l’isolamento cenobitico e antimondano delle comunità esseniche e l’accettazione gallicana delle gerarchie e dei valori della società esterna.

Ora, se è bene che la Chiesa postconciliare divenga motore di cambiamento e di rinnovamento del mondo, come è possibile che venga poi contemporaneamente contestata per essere troppo mondana? Forse il paradosso è tale, perché essa dovrebbe sì impegnarsi, ma solo in una direzione: quella appunto indicata dai “sacerdoti laici” che la vorrebbero al tempo stesso antagonista dei propri rivali e docile compagna di strada.

In controcanto ad ogni vicenda di cronaca della microstoria vaticana (filo giallo), vi è quasi sempre questo abbaglio, questa grande illusione laicista, e il relativo risentimento e frustrazione (filo nero).

Ma la lettura non può si fermare a questo tratto costante spiritualista e anticlericale. Anche perché nel frattempo gli attacchi al Vaticano hanno registrato un salto di qualità, indirizzandosi non più a questo o quel personaggio di contorno, ma al cuore stesso d’Oltretevere. Nell’età videocratica, la visibilità diventa metro di misurazione del potere: l’immagine di Giovanni Paolo II viene contrapposta a quella di Benedetto XVI. Il secondo finisce così per lo scontare la colpa di succedere “mediaticamente” al primo. Non solo, al papa polacco si attribuisce il merito di aver combattuto il comunismo nell’Est europeo – ciò che appunto ne giustifica l’utilità, se così si può dire, agli occhi degli attuali critici del papa tedesco, cui nulla viene perdonato!

Dal discorso di Ratisbona del 2006, alla beatificazione di Pio XI, alle accuse pesanti ed infondate alle gestione dello Ior da parte di Ernesto Gotti Tedeschi (di cui tratta estesamente Gianluigi Nuzzi in queste pagine), fino alle insinuazioni dei rapporti collusivi tra la Chiesa e la mafia – tutto viene ricondotto al vertice della Santa Sede.

Con tutto ciò, l’attuale pontificato ha saldamente in mano il filo rosso: la piattaforma etico-politica più solida e ampia e il respiro strategico più lungo di qualsiasi ideologia borghese, proprio perché riflette alle fonti della crisi del moderno mondo capitalistico – e perché non ha bisogno di farne l’apologia, magari dopo aver “sbrigato” la pratica della distruzione del comunismo. Era forse inevitabile che ad un bavarese, cattolico nella patria della filosofia, spettasse fare la sintesi ontologica e teologica di Eckart, Hegel, Heidegger – e trovare in quella tradizione “profondo-occidentale” risposte illuminate dalla fede. Ma pur con questa solidità e profondità storica e filosofica coltivata nel confronto serrato con il nichilismo, il pontefice appare ora fragile.

La vicenda Boffo – con la cacciata da L’Avvenire e il reintegro alla guida della televisione dei vescovi – è stata letta come emblematica della conflittualità interna alla Chiesa italiana. Si è detto che la pubblicità e l’evidenza di questo scontro sono nuovi, e si è altresì notato in certi casi un vero e proprio “prendere partito” negli ambienti giornalistici. Ciò ha accentuato le oscillazioni interne al Vaticano, specie dopo che l’incumbent Camillo Ruini, vero pilastro dell’establishment d’Oltretevere dagli anni Novanta, ha dovuto fare posto al new comer Tarcisio Bertone. Una dialettica interna, che noi ingenuamente risolveremmo tirando il filo giallo delle fisiologiche lotte di fazione, si colora di nero perché inevitabilmente i tifosi esterni vi attribuiscono una dimensione lacerante – spesso nel (non poi tanto segreto) auspicio di veder lacerata e finalmente “a disposizione” la stessa istituzione.

Insomma, attacchi esterni e divisioni interne sono una morsa formidabile, anche per un papa dalla grande forza teologica e comunicativa come Benedetto XVI. Con una maggiore coesione interna, forse, questa morsa potrà essere allentata, e i fili colorati del magistero cattolico universale, oggi un po’ aggrovigliati, potranno essere meglio dipanati.

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