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In questi giorni in cui infiamma (mi conformo alla retorica elettoralistica) la campagna elettorale, in molti mi chiedono di intervenire per discutere del ruolo dei cattolici in politica. Al di là della contingenza elettorale, sono di norma poco incline ad accettare tali inviti, per la semplice ragione che non so più che cosa dire di originale che non abbia già detto e scritto, qualora abbia mai detto e scritto qualcosa di minimamente originale, sia chiaro. Oggi però è un giorno particolare, stiamo ancora vivendo l’atmosfera severa e mesta che ci ricorda l’immane tragedia subita dai fratelli ebrei (e non solo); una tragedia che ha sconvolto l’Italia, l’Europa e il mondo intero, un male insensato e assoluto voluto e realizzato dagli interpreti di quell’orrore che va sotto il nome di nazismo e di fascismo. Ho pensato, dunque, che una riflessione su quanto accaduto in quei lugubri anni del Novecento possa aiutare noi cristiani, oggi, non tanto a scegliere il partito e i candidati ai quali affidarsi, quanto a capire l’atteggiamento che dovremmo avere, da credenti, di fronte al potere, chiunque sia chiamato a governare e a rappresentare i nostri interessi e valori.

Il 7 giugno 1979 sulla spianata di Brzezinska, davanti al campo di concentramento di Ośweęcim-Auschwitz, Giovanni Paolo II pronunciò frasi pesanti come macigni, disse che l’intero messaggio cristiano poteva essere racchiuso nell’affermazione che il Dio vivente si era reso prossimo all’uomo e si era reso incontrabile nella figura concreta e storica di Gesù; proprio perché è Dio e rivela che Dio è una persona infinita, Gesù rivela anche l’uomo all’uomo. Era esattamente ciò che i totalitarismi di ogni tipo e ideale avevano tentato di negare in tutte le maniere, con i lager, con i gulag, con la cultura della morte e della delazione; l’uomo era stato svuotato del significato più autentico, della sua soggettività e di qualsiasi riferimento alla dimensione spirituale. Paradossalmente, il campo di sterminio, in ultima istanza, è un luogo concepito per una finalità metafisica: dimostrare che non esistono valori autenticamente umani, che l’uomo può essere ridotto alla sua bestialità e che in quegli orribili luoghi nulla di umano possa accadere.

Si dà il caso, però, che proprio nel bel mezzo di quel male assoluto (“è mai possibile tornare a scrivere poesie e a fare filosofia dopo Auschwitz?” si chiedeva Adorno) un uomo, Padre Massimiliano Kolbe, offrendo volontariamente la propria vita per un fratello, afferma Giovanni Paolo II, “riportò una vittoria spirituale simile a quella di Cristo”. Proprio lì, nel luogo costruito per annientare alla radice quanto di umano c’è nell’uomo, Kolbe vendica l’intera umanità e la mostra in tutta la sua grandezza.

Allora, il dono di Kolbe – e dei tanti Kolbe – ristabilisce il nesso esistenziale tra verità e giustizia e con esso riabilita il principio che il cristiano per editto religioso: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel è di Dio”, non solo può, ma decisamente deve opporsi al potere totalitario, che si presenti con la mascella esposta, con il baffetto o con il baffone, così come è chiamato ad opporsi al becero e suadente populismo, anche e soprattutto qualora si manifestasse con la superficiale leggerezza del fenomeno da avanspettacolo. Dunque, quella di Kolbe, seguendo le parole di Giovanni Paolo II, non è riducibile ad una pur esemplare testimonianza, è la dimensione più alta, verso cui tendere, del vivere da cristiani.

In quel luogo di infinito male, creato per annientare l’uomo, per negarne la sua natura spirituale, Kolbe finisce per mostrarne tutta la grandezza, ed in questo preciso istante il nostro martire, innanzitutto, fornisce la risposta alla domanda filosofica di Adorno alla quale non aveva saputo rispondere la filosofia contemporanea, nega la pretesa metafisica nichilista e, infine, ci fornisce l’antidoto cristiano e profondamente liberale – l’istituto – contro ogni forma di totalitarismo: l’obiezione di coscienza.

Saranno proprio le istituzioni a difesa della dignità della persona – quelle che dimostreremo di saper costruire e difendere – la cifra della nostra capacità di testimoniare un’azione politica cristianamente orientata. Una promozione ed una difesa della persona che dovranno concretizzarsi sul piano istituzionale, ricorrendo agli strumenti (partiti, sindacati, associazioni e istituzioni sociali) che noi stessi avremo saputo costruire e rendere disponibili a tutti i cittadini, a partire dalla capacità di coagulare il consenso democratico intorno alle nostre proposte politiche, battendo, di conseguenza, sul terreno della democrazia, quelle dei nostri avversari. Proposte politiche che possono esprimersi anche dall’opposizione e condurci fino all’obiezione di coscienza e a quella forma estrema di obiezione di coscienza che Padre Kolbe ci ha insegnato essere il martirio, qualora attraverso la dialettica maggioranza-minoranza non fossimo in grado, di fronte al corpo elettorale, di rendere ragione delle nostre buone ragioni.

Se il nostro vivere da cristiani secondo virtù non si declina nella vita civile in capacità di edificare istituzioni abili ad offrire soluzioni ai problemi dell’umana contingenza e se esso non sarà conforme al rispetto di quelle istituzioni, di quelle regole e di quelle procedure, vorrà dire che, a dispetto anche delle eventuali migliori intenzioni, staremmo agendo come dei pessimi cittadini e politici cristiani e multa exempla docent.

In tal senso, le istituzioni sono lo strumento umile, ma necessario, che ci consente di ricercare quotidianamente il doveroso consenso sul legittimo dissenso, l’unica possibile definizione di azione politica democratica e poliarchica in una società libera che, nel contempo, assumendo la politica come “via indiretta della carità” ovvero “la via istituzionale della carità”, ci metta al riparo dalla tentazione del serpente di voler prendere il posto di Dio: “Eritis sicut dei cognoscentes bonum et malum”.

Padre Kolbe o “della fertilità del bene”

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