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Il severo monito di Sergio Mattarella, nei confronti delle agenzie di rating, non deve occultare il sottostante dato che lo ha reso possibile. Lo scenario era stato quello della Cerimonia di consegna delle insegne di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito del Lavoro” di qualche giorno fa. In quell’occasione aveva tratteggiato i profili di un Paese, come l’Italia, che non si è certo arreso di fronte alle difficoltà del momento: “L’occupazione cresce, – aveva detto – e così i contratti di lavoro a tempo indeterminato. Le esportazioni italiane continuano a registrare dati positivi, a sostegno del prodotto nazionale. Merito ulteriore di quelle aziende che sono state capaci di affrontare i rischi e le opportunità della globalizzazione”.

“I dati di Bankitalia – aveva aggiunto – certificano un balzo del nostro Paese: la posizione netta sull’estero, a giugno di quest’anno, era creditoria per circa 225 miliardi di euro. Una dimensione enorme: il 10,5% del Pil. Irragionevole che non venga notato dalle agenzie di rating nel valutare prospettive e affidabilità dell’economia italiana. Questa la nostra posizione patrimoniale. “Un segno di forza”, l’ha definita il governatore della Banca d’Italia nella sua ultima relazione”.

Ad avallare lo sconcerto del Presidente della Repubblica i dati di Eurostat. In questi ultimi 10 anni (2013/2023) il salto dell’Italia è stato pari ad oltre 530 miliardi. In definitiva più di un quarto del prodotto lordo del 2023. Si è passati, infatti, da una posizione debitoria di 380 miliardi ad una creditoria di 225, come indicato dal Presidente. Cifra destinata a crescere ulteriormente nei prossimi anni, stando almeno alle previsioni governative sull’andamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Un simile successo in Europa si conta esclusivamente sulle punta di tre dita: Germania in testa, quindi quasi a pari merito l’Olanda, grazie al porto di Rotterdam. E poi l’Italia.

Ed ecco allora la giusta domanda posta dal Presidente. Come si giustifica questo strabismo da parte delle Agenzie di rating, pronte a sindacare ogni stormir di fronda, ma del tutto silenti di fronte a fatti così macroscopici? Purtroppo bisogna riconoscere che questa distorsione non è solo attribuibile a chi ha comunque un qualche interesse nella gestione degli spread sui titoli sovrani. Nella pubblicistica italiana, l’osservazione su questa variabile è stata da tempo rimossa. E chi ha cercato, in qualche modo di rimuovere l’oblio, accusato di voler ripristinare, come è capitato al sottoscritto, il controllo sui movimenti di capitale.

Un indizio di questo atteggiamento lo ritroviamo, ad esempio, nella pur pregevole elaborazione di Via XX Settembre. In un tomo di ben 217 pagine, qual è il “Piano strutturale di bilancio e di medio termine, 2025 – 2029” solo un brevissimo cenno:  “Il ritorno a un avanzo del saldo delle partite correnti, cui si è affiancato un surplus del conto capitale, ha contribuito a una posizione patrimoniale sull’estero che è risultata pari a 154,6 miliardi, equivalente al 7,3 per cento del Pil a fine 2023.” Difficile non vedere in questo minimalismo il riflesso di un atteggiamento culturale.

Varie le componenti. Il cemento di una visione più che liberista, mercatista e globalista, di cui le Agenzie di rating sono garanti. “È il mercato, bellezza!” che determina la giusta allocazione dei fattori produttivi. Politica ed istituzioni ne stiano lontani. Per farci vivere nel migliore dei mondi possibili. Peccato che questa impostazione abbia portato a far crescere soprattutto i nemici dell’Occidente – la Cina innanzitutto – che oggi non si limitano soltanto a dominare economicamente tutto ciò che si può conquistare. Ma a rivendicare, con le buone o con le cattive, un nuovo equilibrio politico a livello mondiale.

C’è stato poi il tentativo di nascondere colpe diffuse. La volontà delle élite di avere le mani libere, per accumulare quelle enormi ricchezze che oggi connotano la realtà internazionale. Da un lato un pugno di super miliardari, a fianco di oligarchi senza scrupoli; dall’altro un ceto medio sempre più sofferente. Costretto a partecipare ad una mensa sempre più impoverita dagli enormi trasferimenti di risparmio a favore dell’estero. Come ha scritto recentemente Francesco Giavazzi (sul Corriere della Sera dello scorso 27 ottobre): “Oggi l’Europa ha un attivo nel saldo delle partite correnti con l’estero di circa 350 miliardi di euro l’anno. Cioè investiamo fuori dall’Ue 350 miliardi l’anno. I mercantilisti applaudono: è un segno, dicono, della forza delle nostre imprese. Invece è un segno della nostra mancanza di visione”.

E quando diciamo “nostra” vi includiamo anche una parte dei sindacati italiani. Di coloro cioè che tendono a sovrapporre “rappresentanza politica e sindacale. Un approccio movimentista e novecentesco ma distante anni luce …. dai bisogni dei lavoratori e dei pensionati” (copyright di Luigi Sbarra, segretario della Cisl). Quel surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti non nasce per caso. È frutto della capacità produttiva dell’intero Paese e di una redistribuzione del relativo prodotto che non va certo a vantaggio dei lavoratori. Ecco allora dove sono le responsabilità del sindacato: nella sua incapacità di portare avanti una strategia capace di accrescere l’impegno a favore di un maggiore sviluppo unito alla sacrosanta rivendicazione del contributo fornito. Destinato a tradursi in un salario corrispondente, necessario a sua volta per alimentare quella domanda interna che è presupposto di un modello di sviluppo cumulativo.

Quel salto di 530 miliardi di cui si diceva all’inizio, se fu necessario per una buona parte, per ripagare i debiti contratti in passato, oggi è divenuto una palla al piede, che impedisce all’Italia di poter utilizzare tutte le risorse disponibili. Un paradosso evidente se si considera che a fronte dell’attivo di 225 miliardi, di cui parlava il Presidente della Repubblica, sono i debiti contratti per il Pnrr (121 miliardi) che andranno ripagati. Paradosso che porta ad una ineludibile conclusione. Ci si fermi un momento, con le polemiche di principio, per riflettere sulle cose. Evitando così che siano le Agenzie di rating, libere di agire, a dirigere l’orchestra. E non la politica nazionale.

Il monito di Mattarella, le Agenzie di rating e la politica italiana. Scrive Polillo

Il Presidente pone la giusta domanda: come si giustifica lo strabismo da parte delle Agenzie di rating, pronte a sindacare ogni stormir di fronda, ma del tutto silenti di fronte a fatti macroscopici come, ad esempio, occupazione che cresce e dati positivi delle esportazioni? Una distorsione non solo attribuibile però a chi ha un qualche interesse nella gestione degli spread sui titoli sovrani… L’analisi di Gianfranco Polillo

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