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L’aggancio alla crescita mondiale tramite le esportazioni dovrebbe – deve – costituire una priorità assoluta della nostra politica economica. Una priorità che, a cascata, dovrebbe – deve – produrre adeguamenti conseguenti e coerenti di tutte le politiche connesse. La politica infrastrutturale – dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni, soprattutto digitali – non può fare eccezione, anzi. Perché, per limitarci ai trasporti, un miglioramento dei servizi di trasporto e logistici ha effetti significativi sulla produttività del sistema economico e quindi sulla competitività internazionale dei nostri prodotti.
Idea largamente condivisa ma che non ha ancora avuto la capacità di incidere sulle priorità temporali e finanziarie delle nostre scelte infrastrutturali.
In altre parole, stiamo lavorando al recupero del ritardo infrastrutturale italiano pur muovendoci entro limiti finanziari terribili, ma senza puntare con la necessaria accortezza e determinazione sulle infrastrutture indispensabili per favorire in via prioritaria assoluta la crescita economica del Paese.
 
Se è vero che ormai nessuno in Italia punta su maggiori infrastrutture solo per ottenere uno stimolo di breve periodo della domanda globale (logica entro la quale una infrastruttura vale l’altra, tanto basta spendere) – come si è fatto e si fa negli Usa e negli altri Paesi che non soffrono dei nostri vincoli di deficit e di debito –, questo non ha automaticamente portato a un affinamento delle priorità tale da anticipare futuri effetti positivi sulla competitività. E questo sia per ragioni formali, sia per ragioni sostanziali.
La forma riguarda la cosiddetta Legge obiettivo. Questa ha sicuramente prodotto un’utile separazione tra priorità nazionali e priorità locali; ma, vincolata dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 a “intese” perfette tra lo Stato ed ogni Regione, costituisce un vaglio a maglie troppo larghe per far emergere priorità finalizzate o finalizzabili al sottosistema produttivo dedicato alle esportazioni. Il fatto che per la crisi della finanza pubblica lo Stato non sia in grado di influire nemmeno finanziariamente sulle priorità complica la situazione, anche perché lascia spazio a distorsioni che portano inevitabilmente a scegliere quello che si riesce a finanziare invece che quello che potrebbe essere più utile.
 
Ma, quand’anche lo Stato avesse i poteri e le risorse per indirizzare gli interventi, rischieremmo lo stesso di non puntare sulle priorità funzionali alla crescita. Il motivo, di merito, è che la politica infrastrutturale italiana non ha ancora aggiornato i suoi obiettivi strategici nazionali al mutare del contesto mondiale. Gli obiettivi infrastrutturali italiani sono ancora quelli fondati sulla situazione degli anni ‘80 dello scorso secolo, peraltro non ancora raggiunti, al più corretti, ma solo a parole, in risposta alle sollecitazioni europee di definizione delle priorità infrastrutturali a quella scala.
Si prenda, ad esempio, la realizzazione di quella che, non è un caso, continuiamo a chiamare Tav (Treno ad alta velocità), anche se progressivamente camuffata a Bruxelles da Progetti prioritari della rete trans europea di trasporto (meglio nota con l’acronimo inglese Ten-T). Negli anni ‘80 la Tav è stata concepita per integrare il mercato interno nazionale (e per questo si ipotizzava di realizzare una “grande T” da Torino a Venezia e da Milano a Napoli) e per favorire lo spostamento modale del traffico passeggeri dalla strada alla ferrovia. L’obiettivo “verde” del trasferimento modale anche del traffico merci aveva, negli anni ‘90, portato a rileggere sempre la stessa “grande T” in termini anche di Alta capacità, facendo anche per questo esplodere tempi e costi di realizzazione.
 
La distanza della politica infrastrutturale italiana da quella europea venne misurata tutta dal fatto che, in sede di prima definizione della rete Ten-T, la Commissione non definì di interesse europeo “prioritario” tutta la Tav italiana, ma solo la Torino-Milano-Venezia (estesa verso Lione ad ovest e verso Trieste ad est) e la Verona-Brennero.
La lentezza con la quale l’Italia pose mano alla realizzazione della “grande T”, (peraltro del tutto incurante delle priorità europee, visto che manca ancora oggi il braccio Milano-Venezia, così come la Torino-Lione) ha reso possibile il registrarsi agli inizi degli anni 2000 di una maggiore convergenza, anche se più a parole che a fatti, delle priorità italiane con quelle europee. È la conseguenza della presa d’atto dell’evidente necessità di porre le grandi infrastrutture non più solo a servizio dell’integrazione dei mercati nazionali dei beni e dei fattori, ma anche dell’integrazione del mercato italiano in quello europeo.
 
È così che all’inizio del XXI secolo si pone meritoriamente il tema della priorità dei valichi alpini (ribadendo la priorità dei tunnel del Frejus, sulla Lione-Torino e del Brennero, sulla Verona-Monaco, e l’importanza dei tunnel del Gottardo e del Loetschberg, ai quali per fortuna provvede la Svizzera, che consentono di pensare a un “corridoio” Genova-Rotterdam) e si decide di estendere il braccio Tav-Ten-T Torino-Venezia-Trieste fino a Lubijana-Budapest-confine ucraino. Scelta corretta, perché i Paesi della nuova Europa (e la Russia che vi sta appena oltre) sono mercati in espansione e destinati a crescere ulteriormente. Prospettiva destinata poi a rafforzarsi con i prevedibilissimi ulteriori futuri allargamenti Ue nei Balcani, a partire dalla Croazia. Purtroppo questa convergenza virtuosa degli obiettivi di politica infrastrutturale italiani ed europei è rimasta finora del tutto priva di effetti. Il dramma sta nel fatto che Frejus e Brennero sono tuttora di là da venire e sul “fronte orientale” si promette al più la Tav fino a Venezia nel 2019!
 
Il dramma diventa tragedia se si riflette su che cos’altro sta succedendo sui mercati mondiali e su che cosa altro occorrerebbe fare – anche sul piano infrastrutturale – per consolidare il chiodo delle esportazioni al quale è disperatamente appesa la crescita italiana. È del tutto evidente che se si traguarda a 10 anni (il periodo minimo di gestazione delle infrastrutture in questione: anche di quelle annunciate da vent’anni, ma mai partite!), i mercati sui quali l’Italia “dovrà” competere sono quelli asiatici oltre Suez, quelli dell’Europa orientale – tutta, dal Baltico ai Balcani – e quelli mediterranei a partire dalla Turchia. In questa nuova prospettiva il contributo infrastrutturale alla competitività italiana si gioca tutto sulle “porte” dell’Italia sul mondo: per le merci, sui porti internazionali (i quattro sistemi portuali dell’alto Tirreno, dell’alto Adriatico, della Campania e della Puglia) e, per i passeggeri, sugli aeroporti internazionali (il sistema romano, quello milanese e quello veneziano). Urgenti e cruciali i collegamenti efficienti da “ultimo miglio” di porti ed aeroporti con la “rete essenziale” europea.
 
Ancora una volta ci viene in anticipato soccorso la politica infrastrutturale europea. Nella prima proposta formale di “rete essenziale” Ten-T, la Commissione ribadisce l’interesse europeo per le tratte italiane di quello che viene ri-denominato il Corridoio 3 Mediterraneo – da Lione a Trieste e Divaccia; su quelle del Corridoio 5 Helsinki-La Valletta – dal Brennero a Napoli, ma rimpiazzando poi la Napoli-Palermo con la Napoli-Bari; sulle tratte del Corridoio 6 Genova-Rotterdam, da Genova al confine svizzero. Si aggiunge, poi, e questa è la novità, l’interesse anche per le tratte italiane del Corridoio 1 Baltico-Adriatico, da Klagenfurt a Udine-Venezia-Bologna-Ravenna e da Maribor a Lubijana-Trieste. Una maggior attenzione, per quanto timida, a un mercato che non sia solo quello “unico europeo”, al rapporto tra l’Europa e il resto del mondo è rappresentato poi dalla “nuova” priorità orizzontale: quella dell’intervento sui porti e gli aeroporti della “rete essenziale”.
 
Riuscirà la politica infrastrutturale italiana a far propria questa nuova sollecitazione europea e l’evoluzione degli obiettivi che ne discende? E, soprattutto, saprà adattarvi le sue priorità di intervento? Riuscirà a capire che non servono solo autostrade e ferrovie e, comunque, non solo quelle autostrade e quelle ferrovie disegnate sulle esigenze degli anni ‘80? Che i porti e gli aeroporti attendono l’attenzione che il loro ruolo cruciale richiede?
È chiaro che i nuovi obiettivi non cancellano quelli vecchi, soprattutto se sconsolatamente non ancora raggiunti, ma tutti gli obiettivi di oggi e di ieri andrebbero messi sulla stessa linea di partenza e “prioritarizzati” secondo le nuove esigenze.
 
Se la crescita è una priorità, e le esportazioni la prima via per sostenerla in Italia, più che a consolidare l’accessibilità a un esangue mercato interno dovremmo puntare per tempo su ciò che ci può mettere meglio in contatto con i ricchi mercati di domani. Non è un dettaglio il fatto che molto, molto, si gioca a nord est, divenuto il crocevia dei rapporti tra la locomotiva europea, la Germania, e le locomotive mondiali, India e Cina. La sproporzione tra gli obiettivi prioritari che dovrebbero essere soddisfatti a nord est per il bene dell’Italia (la Verona-Brennero sul Corridoio Helsinki-Valletta, la Verona-Venezia-Trieste-Divaccia sul Corridoio Mediterraneo, la Tarvisio-Udine-Trieste e Udine-Venezia-Bologna-Ravenna sul Corridoio Baltico-Adriatico; più i porti della rete essenziale: Trieste, Venezia e Ravenna) e la sola promessa della Tav a Venezia nel 2019 suona come l’annuncio di un harakiri!

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