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Che cosa è il Vaticano? Se lo chiedeva Benny Lai, il decano dei vaticanisti italiani, quando nel 1952 si accreditava per la prima volta presso la Sala Stampa della Santa Sede. E la risposta si comprende dal diario che Benny Lai ha scritto giorno dopo giorno, in sessanta anni di carriera, raccolto nel libro “Il mio Vaticano” (Rubbettino). Il Vaticano è un mondo sottovoce. Contano le sfumature, non le parole. Contano i riferimenti, non i contenuti. È un mondo con un suo linguaggio e con le sue regole.
 
Forse non è più il mondo che Benny Lai era abituato a frequentare, perché in questi ultimi tempi, con una cadenza quasi ad orologeria, talpe e corvi allungano documenti riservati (cosa rarissima) con il chiaro intento di farli pubblicare alla stampa. Di più. Si fanno intervistare a volto coperto nelle trasmissioni televisive. Giustificano il loro operato con una rabbia che in fondo è davvero poco vaticana. Perché un’istituzione di duemila anni si regge sulla freddezza, sulla chirurgia delle dichiarazioni, sull’equilibrio. La rabbia è un sentimento che, se c’è, viene consumato freddo.
 
In fondo, il linguaggio vaticano è un po’ come il linguaggio dei puffi. Lo aveva analizzato Umberto Eco, almeno quarant’anni fa, in un articolo intitolato Schtroumpf und Drang (Schtroumf è il nome originale dei puffi). In fondo, anche Gargamella, l’antagonista dei puffi, a un certo punto riesce con una formula alchemica a trasformarsi in puffo, e ad infiltrarsi nel villaggio. Ma non parla, perché non conosce la lingua puffa. Direte voi: basterebbe mettere un puffo qui e là per parlare puffo. E invece no. Perché la lingua puffa ha delle precise regole di disambiguazione. E Gargamella non le conosce.
 
Un po’ come il linguaggio vaticano. Un linguaggio che si è codificato nel tempo. Non basta citare il Vangelo. Nessun uomo del Vaticano – nemmeno l’ultimo degli uscieri – direbbe, come invece ha proferito ieri il “corvo” nell´intervista alla trasmissione Gli Intoccabili su La 7, che “come lui ce ne sono venti” che diffondono i documenti riservati. E non basta usare un copione ben definito, proferire una frase del Vangelo tra le più abusate (ma il Vaticano non è mai banale), e poi parlare del “martirio della pazienza”. Che poi è il titolo di un libro in cui il Cardinal Agostino Casaroli, per anni a capo della diplomazia vaticana, raccontava il suo tenace lavoro diplomatico con i Paesi comunisti. La sua ostpolitik – un lavoro di appeasement e mediazione continuo tra le parti – era stata ereditata dalla segreteria di Stato guidata dal cardinal Sodano, che ne aveva fatto un modello buono per tutte le stagioni. È la stessa ostpolitik che Benedetto XVI ha in qualche modo messo da parte. A partire dal titolo del primo messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace, diplomaticamente importante perché va sui tavoli dei capi di governo del mondo: Nella verità, la pace.
 
Ed è forse guardando più in alto che si può comprendere il perché questo papato è messo costantemente sotto attacco. Dietro i plausi per la teologia e per i discorsi, si cela un fastidio forte per un Papa che ha rimesso la Chiesa al centro, e sta cercando di riportarla a Dio. Forse non c’è più il Vaticano di una volta. Ma di certo Benedetto XVI vuole far ritornare la Chiesa di una volta.

Il linguaggio del Vaticano (e quello dei puffi)

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