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Nonostante i piani anticrisi, se tiriamo le somme, l’estate non è stata serena. Uno dei libri più venduti in Francia è il saggio di Alain Cotta Sortir de l’Euro ou Mourir à Petit Feu (Uscire dell’euro o essere grigliati a fuoco lento). La Repubblica federale tedesca ha presentato una bozza di articolato per mettere “ad amministrazione controllata” le politiche di bilancio dei Paesi i cui disavanzi e debiti mettono a rischio la moneta unica. Sulla base di dati Ocse e Bce, Simon Tilford, capo economista del pensatoio liberale Centre for european reform ha dimostrato che negli ultimi dieci anni la Germania ha deprezzato il proprio euro rispetto a quello di altri Paesi dell’area in quanto in termini reali i salari tedeschi, ed il costo del lavoro per unità di prodotto, è diminuito mentre in molti altri (Spagna, Portogallo, Francia, Italia) è aumentato. La sfasatura potrebbe comportare una separazione, più o meno consensuale. Il Centre for european policy research, Ceps (Working paper n. 334) ha documentato un vero e proprio tracollo della fiducia degli europei nella Banca centrale europea, Bce; al lavoro del Ceps hanno risposto due economisti del servizio studi Bce con un saggio, peraltro poco convincente, su The Manchester School.
 
I “padri fondatori” dell’euro seguirono l’esempio di Donna Letizia (al secolo Maria Letizia Ramolino), madre di Napoleone, rimasta nei libri di storia per l’intercalare “finché dura…” (lo ripeteva ogni volta una corona si posava sulla testa di uno dei suoi figli o delle sue figlie). Sul retro di ciascuna banconota, c’è un codice di identificazione di 11 cifre precedute da una lettera in maiuscolo (S per l’Italia) per individuare la Zecca che l’ha emessa. Ancora più palese la procedura per le monete metalliche (da quelle dei centesimi a quelle di uno o due euro): ciascuna ha una “faccia nazionale” che mostra a tutto tondo quale Zecca dell’Eurozona l’ha coniata. Le anime belle affermano che si tratta unicamente di “eleganza burocratica” per non fare del tutto perdere l’identità nazionale. Le anime un po’ meno pie sostengono che il marchingegno è un metodo di controllo per il Sistema europeo di banche centrali (Sebc) e per la Bce al fine di evitare che qualche Zecca aumenti la massa monetaria più del dovuto ed inietti inflazione. Le anime maligne sussurrano che in effetti i “padri fondatori” hanno la memoria lunga: hanno visto il crollo di una dozzina di unioni monetarie (grandi e piccole) dalla fine della Seconda guerra mondiale ed alcuni di loro rammentano quello dell’unione monetaria latina, nata tanto bene tra Italia, Francia, Belgio e Svizzera da tirarsi dietro Spagna, Grecia, Bulgaria, Austro-Ungheria, Stato Ponteficio, Serbia, San Marino e pure i lontanissimi Venezuela e Indie occidentali danesi – prima di implodere ed essere sciolta nel 1927. I codici sarebbero una precauzione. In caso di sfascio, si sa a quale Zecca rivolgersi per convertire gli euro nelle nuove monete di questo o quel Paese.
 
Si deve congetturare una possibile fine dell’esperimento dell’unione monetaria? Il nodo più difficile consiste nello stimare “i costi di transazione” sia per chi se ne va (o è cacciato) sia per chi resta. C’è, infatti, poca evidenza empirica in quanto nulla si sa del caso più recente: il collasso dell’unione monetaria dell’Urss. Ci sono dati limitati della fine di due unioni monetarie: quella tra Singapore e Malesia nel 1965 e quella dell’Africa orientale (Kenya, Tanzania, Uganda) nel 1977. In ambedue i casi, i costi furono elevatissimi per tutte le parti in causa.

Oeconomicus/ L'euro e le nuove scadenze internazionali

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Ue/ C'è chi è disposto ad ascoltarci

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