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Per chi si occupa di economia e finanza la lettura dell’Enciclica di papa Benedetto XVI è un’esperienza non solo di estremo interesse, ma molto stimolante intellettualmente, perché porta a confrontarsi con una chiave di lettura del mondo economico fondata non solo su categorie economiche, ma su una prospettiva escatologica, che riconduce tutto al Creatore e alla centralità dell’uomo nel Suo creato.
L’essenza del messaggio si può riassumere nell’incipit dell’enciclica Caritas in veritate Christi. Ma qui si trova subito il dilemma su come intenderla: economia della carità cristiana, oppure carità cristiana nell’economia?
Non si tratta di una mera trasposizione di termini, ma di due modelli molto diversi su come strutturare l’agire economico dell’uomo. Entrambi i modelli pongono al centro dell’economia l’uomo, il rispetto della sua dignità ed anche il miglioramento della sua condizione terrena per alleviare i mali che lo affliggono. Tuttavia, gli itinerari che derivano da questa premessa, declinati nelle due alternative, conducono a risultati molto distanti gli uni dagli altri.
 
Un’economia della carità, ovvero del donare in nome del Cristo e del Suo messaggio di fratellanza ed amore, implica il non guardare al calcolo delle contropartite nello scambio di prestazioni. Questa strada del donare in nome della fede o di un dettame superiore è propria di un’economia ideale, fatta di altruismo e di solidarietà più o meno spontanea, ma purtroppo un modello che è naufragato in tutte le sue sperimentazioni che la storia ci ha tramandato, nelle comunità paleocristiane come nei regimi di comunismo forzoso. È naufragato perché non tiene conto della profonda debolezza umana che si manifesta nella tendenza a sfuggire al sacrificio, nel mirare al proprio benessere con minimo sforzo proprio, in definitiva nell’egoismo innato.
Se una economia della carità non ha futuro ed è inesorabilmente destinata al fallimento a causa della natura umana, ebbene l’alternativa cristiana sarebbe applicare la carità come uno dei correttivi dell’operare delle forze economiche innate nell’uomo, ovvero attuare opere di carità nell’economia di mercato concorrenziale. Ammesso questo obiettivo, si apre il grande problema della scelta degli strumenti più efficaci, o delle vie più appropriate per raggiungerlo.
 
L’enciclica papale esamina diversi strumenti o modi di strutturare l’economia per additare prescrizioni, che si possono ricondurre tutte all’affermazione che l’economia per il suo corretto funzionamento ha bisogno di un’etica amica della persona. Tra questi canali d’intervento il pontefice dedica una speciale attenzione alla globalizzazione, la finanza, il lavoro e la sua remunerazione, la giustizia distributiva e l’aiuto ai Paesi in via di sviluppo (Pvs).
Benché la considerazione di questi strumenti sia ampia nella visione e profonda nell’afflato, essa sollecita a vederne tutte le implicazioni, e anche valutarne la reciproca compatibilità. Se le diverse prescrizioni risultassero solo parzialmente compatibili, come la realtà della natura umana mostra, sarebbe necessario operare bilanciamenti, o compromessi.
Si guardi alla globalizzazione dell’economia: è uno dei modi per realizzare l’unità della famiglia umana e dello sviluppo dell’umanità, da sempre invocata dalla Chiesa. Giustamente il Papa afferma che essa non è a priori né buona, né cattiva, ma in ogni caso è necessaria per rinsaldare il senso di appartenenza all’unità della famiglia umana. Una globalizzazione senza rispettare regole è distruttiva. Occorre quindi governarla, perché si svolga per il bene dell’umanità. Se così è, il governo della globalizzazione non può essere la risultante dell’applicazione di un principio di sussidarietà, che dia priorità all’intervento dello Stato o di autorità superiore, perché governare la globalizzazione implica stabilire concordemente regole di base a cui gli Stati devono attenersi, e creare istituzioni che le facciano rispettare. Né è necessaria un’autorità politica mondiale per produrre questi beni pubblici internazionali. Si richiedono, invece, prima regole e poi istituzioni internazionali strumentali all’applicazione delle regole.
 
La finanza è un altro campo della globalizzazione. L’innovazione finanziaria degli ultimi decenni ha risposto a obiettivi di sfrenato profitto, ma ha anche dischiuso grandi opportunità di sviluppo per entrambi, Paesi e famiglie a minor reddito pro-capite. Quando si punta il dito sui prestiti sub-prime e i Cdo (Collateralized debt obligations) si dimentica che essi hanno permesso a vasti ceti meno abbienti di realizzare il sogno di disporre della proprietà della propria casa e quindi di diffondere ricchezza. Ma questo processo è stato mal governato per mancanza di regole condivise internazionalmente e di sorveglianti capaci. L’autorità nazionale ha fallito in questo compito, come hanno fallito la regolamentazione e la cooperazione internazionale.
Il lavoro e la sua remunerazione sono campi in cui è facile cadere in incompatibilità con gli altri dettami. Come è possibile assicurare certezze al lavoratore o il diritto al giusto salario in una qualsiasi impresa che è esposta alla concorrenza del mercato? Quest’ultima implica la continua sfida del mercato, accettazione del rischio, flessibilità di adattamento, mobilità, disponibilità del lavoratore al cambiamento, sacrificio individuale, adeguamento alla concorrenza intervenendo sul binomio costi-produttività. Parimenti, la remunerazione del lavoro non può essere dissociata dalla sua produttività e dal riflettere il variabile rapporto tra domanda ed offerta di lavoro, pur dovendo assicurare il soddisfacimento dei bisogni essenziali del lavoratore.
Né la giustizia distributiva è in assoluto una soluzione al problema delle disuguaglianze di ricchezza sia all’interno di un Paese, né tra Paesi. Si è già visto storicamente che in economie, in cui i dislivelli di reddito sono compressi entro fasce minime, si finisce col soffocare lo spirito di iniziativa economica e di responsabilità sul lavoro e verso la società, perché viene meno l’incentivo ad impegnarsi. In altri termini, sottraendo una parte significativa del prodotto dello sforzo individuale per donarlo agli altri si spegne il motore della crescita economica e si ricade nella coercizione al lavoro, nella bassa produttività, nel ritardo di sviluppo. Si genera altresì una aspettativa di ampi gruppi della popolazione ad avere diritto ad appropriarsi del prodotto altrui.
In tal senso, sembra oltremodo appropriato il richiamo del Papa a coloro che ritengono di essere titolari solo di diritti, per ricordare “come i diritti presuppongono doveri senza i quali si trasformano in arbitrio”, o, si può aggiungere, in pretese ingiustificate.
 
Analogamente, esercitare la caritas sotto forma di donazioni ai Pvs ed assistenza alle loro produzioni richiede che il lavoratore sia consapevole che deve rinunciare a parte dei frutti del suo lavoro, e non di quello altrui, ed accettare che possano essere spiazzate le proprie produzioni con conseguente disoccupazione. Per altro verso, l’aiuto può scoraggiare la produzione nel Paese ricevente, perché tende a deprimere la remunerazione dei produttori locali.
Questi esempi mostrano che la caritas è virtù, ma anche un serio problema per il donatore, per il beneficiario e per lo stesso sviluppo economico, perché è molto difficile sia offrirla, che riceverla. In particolare, richiede di realizzare un delicato equilibrio tra pro e contro. Se non esistono strumenti e modalità di caritas perfetti che si possano applicare a un’economia di mercato, non vi è invece dubbio che per il buon funzionamento dell’economia un appropriato sistema di incentivi e disincentivi economici è necessario, in quanto è essenziale per motivare l’individuo ad essere corresponsabile del proprio benessere e a fare il migliore uso delle risorse, vista la loro limitazione. Tuttavia, incentivi e disincentivi da soli non bastano, ma vanno integrati da una norma morale, sia essa tratta da un ordine divino o da un imperativo categorico.

Economia della carità. O carità nell'economia?

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