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Ci sono oggi due modi di intendere la libertà religiosa. In una prima accezione la libertà religiosa coincide, di fatto, con la tolleranza dei diversi “culti” religiosi. Per chi la intende così, quanti più campanili, minareti, sinagoghe o altri simboli animano lo skyline di una città, tanto più essa è libera sul piano religioso. C’è, però un altro modo di concepire la libertà religiosa, molto più profondo e radicale (nel senso che va alla radice…).
In quest’altra direzione, la libertà religiosa è, innanzitutto, la possibilità per ciascun uomo di esprimere il proprio “senso religioso”, cioè quel complesso di domande ed esigenze originali che lo spinge a cercare il senso del reale così come gli si pone dinanzi e lo muove ad agire, a costruire, a dare forma a questo senso.
 
In quest’accezione, le diverse religioni non sono nient’altro che la storia dei diversi tentativi dell’uomo di stabilire un “ponte” con questo “senso” e, dunque, sono “forme” della libertà religiosa. (E va ricordata l’assoluta originalità, tra tutte queste forme, del cristianesimo, in cui non è l’uomo a costruire il ponte, ma il “senso” stesso che ha deciso di attraversare spazio e tempo “facendosi uomo”).
Dunque, per difendere la libertà religiosa nel primo senso occorre garantire a tutti la facoltà di professare il proprio credo religioso – libertà che ancor’oggi è negata in molta parte del mondo. Ma per avere la seconda occorre una cosa ben più impegnativa: la libertà, appunto.
Questa, che solo apparentemente potrebbe apparire una distinzione sottile e un po’ capziosa, è, in realtà, uno dei temi fondativi indispensabili per comprendere il ruolo e la funzione dello Stato contemporaneo, soprattutto nell’ottica della sua, inevitabile, laicità (non laicismo).
 
Ma ancor più sorprendente è rendersi conto che a porre il problema in questi termini, con una lucidità e una chiarezza impressionante, non è un pensatore o un politico dei nostri tempi, ma don Luigi Sturzo nei primi anni del ‘900.
Sturzo appena finita la Prima guerra mondiale è chiamato a Milano per discutere dei problemi del dopoguerra. Si poneva il problema della scelta di una nuova forma di governo e di come ricostruire lo Stato dopo la devastazione della guerra; ebbene, dinanzi a questi dilemmi, il prete siciliano, ben cosciente di “far meraviglia”, ritiene che la questione decisiva sia un’altra: sia una questione di libertà.
 
“Farà meraviglia certo a spiriti superficiali e ai liberali dello stampo classico, sentire che oggi il problema più significativo e l’elemento di contrasto si basa sopra una ragione di libertà. E non è certo di una libertà formale o esteriore che intendo parlare, ma di una libertà intima e sostanziale che pervade il corpo sociale”.
Dunque, dopo la distruzione della Grande guerra il punto da cui ripartire è: la libertà della persona e della società. E qual è il più grande pericolo per questa libertà? La concezione panteistica dello Stato moderno. È davvero sorprendente; non siamo negli anni ‘30 o ‘40, quando lo Stato totalitario fascista avrebbe mostrato tutto il suo volto illiberale; siamo ancora nel 1918. Cos’è, dunque, questa concezione “panteistica” dello Stato? “Tale concezione panteista è penetrata (…) in tutte le nazioni civili a base liberale e democratica e nel pensiero prevalente della filosofia del diritto pubblico; e quelle che hanno maggiormente contrastato le finalità religiose della chiesa, hanno sostituito, nella negazione di ogni problema spirituale collettivo, una nuova religione laica, quella dello Stato sovrano assoluto, forza dominatrice e vincolatrice, norma e legge morale, potere incoercibile, sintesi unica di volontà collettiva”.
 
Lo Stato quando pretende di essere l’unica fonte di riferimento morale, l’unico soggetto autorizzato a trovare la sintesi delle domande collettive, di fatto si propone come sostituto della dimensione “religiosa” propria di ogni uomo. Solo, infatti, la dimensione religiosa rende libera e operante l’energia umana.
“La verità è che nel secolo xix (…) è stata concepita una nuova divinità, ora detta Stato, ora detta nazione; ad essa sono stati dati tutti gli attributi di forza, di diritto, di etica; il potere esecutivo e le oligarchie dominanti sono i suoi sacerdoti; e quel termine assoluto che l’uomo cerca in se stesso quando più non crede in Dio, la collettività l’ha cercato nello Stato, e ne ha fatto il nuovo Moloch della civiltà moderna. E questo Moloch, sia pure salvando certe forme esteriori e la struttura del regime costituzionale, ha divorato la libertà nella sua vera e profonda realtà: ha lasciato, larve senz’anima, dove più dove meno, le libertà formali della vita politica, riportando in sua vece le oligarchie e le dittature che aveva abbattuto”.
 
Esiste nell’uomo una capacità innata di farsi “commuovere” dalla realtà, di farsi colpire e quindi di reagire; esiste un principio – si chiama “responsabilità” – per cui il bisogno esige una “risposta” (respondeo) innanzitutto della mia persona. Esiste – per usare il linguaggio sturziano – una forza “ingenita” delle popolazioni, una capacità di “generare” valore e risposte positive. Senza questa dimensione l’uomo è prigioniero del potere, diviene un “assistito” e non un soggetto responsabile, pronto sempre a pretendere risposte e non a proporre soluzioni. Per usare le parole di
Benedetto xvi: «Senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta». Sarebbe un bel paradosso se alla fine, in nome della libertà religiosa, ci trovassimo a vivere in uno Stato pieno di chiese, sinagoghe e moschee, ma senza più uomini e donne, senza cioè persone libere nel tentare risposte nuove alla domanda infinita di creatività che costituisce il nostro vero “bene comune”.

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