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Che sia necessario ripartire dal sud per rilanciare lo sviluppo dell’intero Paese è cognizione comune, almeno in quanto enunciato. L’elemento di non poca novità è che il governo Berlusconi abbia cominciato a lavorare, fin dall’inizio del suo mandato e con l’appoggio della maggioranza degli italiani, per individuare le carenze, le necessità e le possibili aree d’intervento per colmare il divario tra il centro-nord e il Mezzogiorno. Un divario che resta immutato da ben più di 40 anni e che, nell’imminenza delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità dobbiamo con ancora più convinzione e urgenza superare. Oltretutto, le politiche di coesione territoriale s’inseriscono inevitabilmente in un quadro sovranazionale del quale tener conto, a maggior ragione adesso che a livello europeo si è aperta una fase di confronto che punta a uno sviluppo armonioso dell’Unione e delle sue regioni tramite una riduzione delle disparità territoriali. In questa prospettiva, le scelte operate dal governo nel Piano nazionale per il sud, ne anticipano, di fatto, l’attuazione.
La mancata crescita di alcune aree del nostro Paese, e lo dico con fermezza, non trova giustificazione nell’insufficienza delle risorse destinate loro dalle politiche di coesione, ma semmai nell’incapacità dimostrata in molti casi dalla classe dirigente meridionale di spenderle presto e bene.
La fotografia in cifre che emerge dalla ricognizione svolta nel mese di luglio dal Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica sull’utilizzo effettivo di fondi Fas e fondi comunitari, è più che allarmante: per le otto Regioni del Mezzogiorno, a fronte dei circa 16 miliardi di fondi Fas stanziati nel periodo di programmazione 2000/2006, la spesa realizzata è circa il 40% e quasi 6 miliardi dei 16 sono impegnati su progetti fermi al di sotto del 10% di realizzazione.
L’avanzamento della spesa dei programmi 2007-2013 si attesta intorno al 7% a metà del periodo di programmazione e ciò determina il rischio concreto di incorrere nel disimpegno automatico delle risorse comunitarie. Queste percentuali ci confermano che è necessario invertire la rotta sul fronte della qualità spesa e sul sistema delle regole oltreché sulle strategie di rilancio. Nessuna seria prospettiva di crescita per il Mezzogiorno è pensabile sino a quando le politiche per il suo sviluppo non superino gli eccessi del localismo che induce ad un frazionamento ossessivo degli interventi e quindi alla loro inefficacia.
Fatta la diagnosi e individuate le criticità che non hanno permesso al meridione di stare al passo con la crescita del resto del Paese, abbiamo inserito il sud tra le 5 priorità di rilancio dell’azione di governo, sulle quali il presidente Berlusconi ha chiesto e ottenuto la fiducia in entrambi i rami del Parlamento. Si è arrivati quindi a fine ottobre al via libera del Piano nazionale per il sud, un piano che coinvolge una mole di risorse che si aggira intorno ai 100 miliardi di euro composta da varie voci (Fas e Fondi comunitari).
Tengo a sottolineare l’aggettivo “nazionale” proprio perché la crescita del Mezzogiorno è un interesse primario di tutto il Paese.
Gli obiettivi che si prefigge il Piano sono chiari:
concentrare le risorse su pochi obiettivi prioritari; intervenire sul sistema delle regole per garantire la certezza della spesa; creare nel Mezzogiorno le condizioni per il conseguimento di standard nazionali ed europei nei servizi essenziali per i cittadini meridionali, dalla scuola alla sicurezza passando per la giustizia, l’acqua e i rifiuti.
Per raggiungere questi obiettivi sono state individuate otto grandi priorità, tre strategiche di sviluppo pensate in un’ottica pluriennale che, nel dettaglio, sono: 1) infrastrutture, ambiente e beni pubblici; 2) competenze e istruzione;
3) innovazione, ricerca e competitività.
 Le altre cinque priorità strategiche sono di carattere orizzontale da attuare rapidamente per creare un ambiente favorevole e le condizioni adeguate ad accogliere le innovazioni contenute nel Piano e riguardano la sicurezza, la legalità, il funzionamento della Pa, il mercato dei capitali e la riforma degli incentivi. Il perno del Piano sono i grandi progetti infrastrutturali a rete, materiali e immateriali, destinati principalmente al sistema dei collegamenti ferroviari, dorsali e trasversali, ad Alta capacità/ Alta velocità (Napoli-Bari-Lecce-Taranto;
Salerno-Reggio Calabria; Catania-Palermo) e alle opere logistiche annesse, e alla realizzazione di una rete a banda larga e ultra larga che copra l’intero territorio meridionale. Altro elemento irrinunciabile per lo sviluppo del Mezzogiorno è senz’altro il miglioramento dell’offerta dei servizi e delle strutture scolastiche per assicurare a studenti e insegnati del sud standard analoghi a quelli del nord e una formazione adeguata ai migliori sistemi europei.
Non c’è sviluppo e occupazione, poi, senza favorire una crescita dimensionale delle imprese meridionali che incontrano, invece, ostacoli molto forti legati anche ai costi unitari aggiuntivi e all’incertezza propria del contesto. Per questo le parole chiave che declinano la riforma degli incentivi per le imprese del Mezzogiorno sono: semplificazione, concentrazione e flessibilità nella definizione degli strumenti d’intervento.
Questo elenco – che non è solo un elenco di titoli, come dice qualcuno – si tradurrà in opere strategiche e interventi concreti, la cui attuazione avrà dei tempi precisi e delle risorse definite.
Il piano prevede infatti che, quando gli impegni presi non vengano mantenuti, subentri il potere sostitutivo da affidare a un commissario straordinario.
Questo perché il problema centrale in questi anni di mancata crescita del sud è stato lo scarso senso di responsabilità delle amministrazioni locali e lo scaricabarile tra vari livelli istituzionali. Per questo il Piano per il sud va inserito, oltre che all’interno del quadro europeo di politiche di coesione, anche all’interno dei principi del federalismo fiscale.
Le due riforme, quella federalista e quella delle politiche per il sud, si rafforzano a vicenda. Il Piano nazionale per il sud fa parte del decreto interministeriale sulla “perequazione delle infrastrutture” che, in attuazione dell’art. 22 della legge delega sul federalismo fiscale, dovrà verificare la differenza nella dotazione di opere pubbliche tra nord e sud del Paese. Entro 90 giorni, i ministri competenti dovranno stilare un elenco di opere necessarie a colmare il gap con le annesse priorità.
Altro riferimento alla riforma federalista è contenuto nel secondo punto del pacchetto del Piano, il decreto legislativo attuativo dell’art. 16 della legge delega, relativo agli interventi speciali, che fissa un nuovo modello di governance, stabilendo come regolarsi per il futuro, e prevede il “contratto istituzionale di sviluppo”, con il quale il governo e le Regioni dovranno indicare entro 30 giorni i dettagli degli interventi sul fronte dei rispettivi investimenti. Si tratta quindi di un Piano che prevede interventi concreti in tempi certi. Proprio la concretezza è l’obiettivo che ci siamo prefissati, una sfida di questo governo contro gli scettici e una sfida di tutti perché si realizzi un salto di qualità nell’utilizzo e nella gestione delle risorse pubbliche, per il bene del sud e quindi per il bene del Paese.

Obiettivo sud

Che sia necessario ripartire dal sud per rilanciare lo sviluppo dell’intero Paese è cognizione comune, almeno in quanto enunciato. L’elemento di non poca novità è che il governo Berlusconi abbia cominciato a lavorare, fin dall’inizio del suo mandato e con l’appoggio della maggioranza degli italiani, per individuare le carenze, le necessità e le possibili aree d’intervento per colmare il divario…

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