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Fino dai giorni successivi all’invasione russa del 24 febbraio 2022 ho ripetutamente sostenuto, anche su Formiche, che la chiave del conflitto è nelle mani della Cina di Xi Jinping. Mi pare che le evoluzioni di un anno di guerra non facciano altro che confermare il ruolo chiave di Pechino. Avevo anche detto che, a mio modo di vedere, l’innalzamento di tensioni nei rapporti Usa-Cina voluto da Trump aveva creato le condizioni per lo scoppio del conflitto in Ucraina. Senza l’appoggio geo-strategico ed economico della Cina, infatti, la Russia non sarebbe stata – e non sarebbe – in grado di reggere una guerra di tali proporzioni e durata.

Ma per capire a che punto siamo oggi, vorrei fare una breve analisi di contesto. Anzitutto, credo che la formula “questa è una guerra tra Usa e Cina” sia fortemente riduttiva e perciò sbagliata, perché in realtà la posta è ancora più alta, dal momento che il confronto coinvolge ormai la gran parte dei Paesi del mondo. Quello che è in gioco è un confronto tra democrazie e regimi autocratici, destinato forse a creare una nuova e devastante forma di bipolarismo.

Infatti, se anziché puntare il teleobiettivo solo sulla guerra in Ucraina usiamo un grandangolare, inquadriamo un mondo sempre più globale e interconnesso: dall’Artico all’Africa, dal Mediterraneo al Mar Cinese Orientale e Meridionale (guarda caso due “mari di mezzo”), dall’Europa all’India (il cui ruolo è tuttora ampiamente sottostimato), dall’Asia Centrale al Medio Oriente, ovunque si assiste ad un confronto a più livelli tra le grandi potenze globali, un confronto tra modelli culturali, sociali, economici che le impegna oltremisura e spesso le dissangua. E’ il caso della stessa Russia che, oltre al fronte ucraino, ha il problema della presenza in Siria, in Africa e nel Mediterraneo, deve affrontare i problemi del Kazakhstan e presidiare l’infinito confine dell’Artico. Dal punto di vista economico, è costretta a vendere il petrolio (e il gas, per quello che può) alla Cina a prezzi stracciati, e questo va benissimo a Pechino, almeno per ora, ma per Putin il prezzo è alto.

Ma anche per Cina e Stati Uniti (oltre che per l’Europa) le risorse non sono infinite, quindi è la realtà ad indicare la strada: è un conflitto che deve finire, anche se deve essere chiaro che ci sono un aggressore e un aggredito, e che quindi vanno rispettate le regole del diritto internazionale. Sono convinto che la Cina ne sia perfettamente consapevole, e se oggi continua a sostenere Mosca è perché in questo momento prevale ancora l’esigenza da parte dei due leader di usare il pugno di ferro per tenere alta la propria popolarità e controllare qualsiasi cenno di dissenso interno.

Ma per la Cina la partita rischia di trasformarsi da win-win in lose-lose. In altre parole, oggi Cina e Russia o vincono insieme, o perdono insieme. Ma se Putin non ha alternative, Xi Jinping deve stare molto attento a capire fino a che punto gli convenga rischiare di essere sconfitto. Già sta perdendo con lo stop al progetto strategico Belt and Road, la nuova via della seta, e con le tensioni nei rapporti commerciali con l’Occidente, che non giovano certo alla sua economia, non più in grande spolvero. Qui entra in gioco il ruolo americano. Non sono un estimatore di Biden, ma in politica estera sta facendo certamente meglio dei suoi due ultimi predecessori. La visita a sorpresa a Kiev è stata una sua vittoria personale, il rafforzamento del Quad+ in estremo oriente è una spina nel fianco importante per le manie espansionistiche di Pechino verso est (e una protezione del proprio fronte pacifico). Ora da parte sua servirebbe, come già dicevo qualche tempo fa, un’operazione di de-tensioning, opportunamente concordata, nei confronti della Cina, per aprire quella frattura tra Mosca e Pechino da sempre predicata dal saggio Kissinger. Un segnale positivo mi pare venire, paradossalmente, proprio dall’innalzamento dei toni degli ultimi giorni da parte cinese e dallo sbandierato piano di pace, che mi suonano tanto come tentativi di alzare il prezzo al tavolo negoziale.

Sia Biden che Xi Jinping hanno nelle mani un bel cerino: possono usarlo per accendere una miccia o per fumarsi una sigaretta. Dipende da loro, ma è soprattutto Xi a dover decidere quando liberarsi dello scomodo Vladimir. A proposito di scenari interconnessi, quasi due anni fa, ad aprile del 2021 scrivevo su Formiche.net: “Mi permetto di segnalare un aspetto che vedo assai trascurato, legato alla Transnistria. La Moldova, di cui questa provincia fa parte, ha recentemente eletto presidente l’europeista Maia Sandu, nonostante anni di fortissima propaganda antieuropea e filorussa, che faceva leva sulla estrema povertà del paese e sul controllo di fonti di informazione radiofoniche e televisive da parte di Mosca. Come non aspettarsi, allora, reazioni da parte di Putin anche in questa piccola regione che si incunea tra la Moldova e l’Ucraina, dichiaratasi indipendente e dove Mosca mantiene una “forza di pace”? La Transnistria potrebbe essere il prossimo conflitto che si “scongela”. Mi auguro che ciò non si verifichi, ma temo, purtroppo, che potrebbe accadere”.

Spero di essere stato cattivo profeta. Chisinau non avrebbe la forza di opporsi a un attacco russo. Questa volta Putin non potrebbe dire che è l’Occidente che lo minaccia, ma con la sua straordinaria capacità di cambiare la storia potrebbe sempre dire di dover andare in soccorso di un popolo oppresso da un regime nazista.

Il cerino in mano di Xi e Biden. L'analisi di Alli

Di Paolo Alli

Il presidente di Alternativa Popolare e senior fellow dell’Atlantic Council: “Sia Biden che Xi Jinping hanno nelle mani un bel cerino: possono usarlo per accendere una miccia o per fumarsi una sigaretta. Dipende da loro, ma è soprattutto Xi a dover decidere quando liberarsi dello scomodo Vladimir”. Ora Biden deve “aprire quella frattura tra Mosca e Pechino da sempre predicata dal saggio Kissinger”.

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Nonostante Putin abbia dichiarato la sospensione della partecipazione al Trattato Start e il potenziamento del proprio arsenale nucleare, una nota del ministero degli Esteri russo assicura che Mosca continuerà a rispettare i limiti previsti dall’Accordo. L’analisi di Danilo Secci, ricercatore associato dell’Istituto di Scienze Sociali e Studi Strategici “Gino Germani”, analista specializzato in questioni di difesa e sicurezza

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