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L’Europa si trova a un bivio. L’instabilità globale, resa permanente da conflitti prolungati come quello in Ucraina, dal riemergere di minacce nel Medio Oriente, dal progressivo disallineamento transatlantico e dall’incertezza asiatica, ha imposto una nuova centralità della difesa nella politica continentale. In parallelo, i sistemi produttivi europei vivono una fase di transizione profonda: deindustrializzazione, crisi energetica, concorrenza sistemica e scarsità di filiere autonome. È in questo contesto che prende forma la nuova ambizione continentale di aumentare significativamente la spesa militare. Quasi tutti i Paesi dell’Unione stanno annunciando piani di investimento consistenti nella difesa. Ma ciò che manca, e che rischia di vanificare ogni sforzo, è una regia coerente. Chi fa cosa? Chi prende le decisioni? Chi definisce le priorità industriali? Chi costruisce il legame tra sicurezza, economia e industria? L’Italia, con il suo tessuto produttivo solido ma frammentato, con le sue eccellenze tecnologiche e la sua posizione geostrategica, è chiamata a una scelta cruciale: partecipare al riarmo in modo strutturato e lungimirante, oppure inseguire i dossier senza una strategia nazionale.

Non siamo più nel tempo in cui aumentare il bilancio della difesa significava semplicemente acquistare mezzi o rafforzare contingenti. Oggi, la spesa militare è sempre più intrecciata con le politiche industriali, con l’innovazione tecnologica, con la diplomazia economica. Non si tratta solo di investire, ma di farlo bene, in modo coerente con una strategia di lungo termine. Ma una strategia, per funzionare, ha bisogno di una regia. E in Italia questa regia ancora non si vede. Il rischio, evidente, è che le decisioni si moltiplichino senza ordine, che le risorse vengano disperse in progetti disorganici, che le aziende più capaci si muovano all’estero per cercare alleanze e finanziamenti in contesti più strutturati.

Il punto non è se investire o meno nella difesa: la risposta, oggi, non può che essere affermativa. Il punto è chi deve fare cosa. Il Ministero della Difesa è naturalmente il titolare dell’indirizzo operativo e del procurement, ma non può essere lasciato solo nella gestione della trasformazione industriale. Le competenze sulle politiche industriali stanno altrove – nel Ministero delle Imprese, nella Farnesina (per quanto riguarda i mercati esteri), nella Cassa Depositi e Prestiti, nella Sace, nel sistema universitario e della ricerca. E tuttavia, nessuno di questi attori sembra oggi sedere con continuità e metodo attorno a un tavolo comune. Questo deficit di coordinamento si riflette nella mancanza di una politica industriale della difesa vera e propria. Abbiamo una serie di strumenti, ma non una direzione. Abbiamo eccellenze, ma non una cornice condivisa. Abbiamo aziende forti, ma spesso costrette a fare da sole, a costruire partnership transnazionali in assenza di supporto nazionale coeso.

Proprio in questi giorni, il vertice di Fincantieri ha segnalato con forza un elemento chiave: gli investimenti nella difesa, se ben canalizzati, possono rappresentare una leva di moltiplicazione industriale. Il settore navale, in particolare, è pronto ad accogliere e moltiplicare miliardi di euro di investimenti, creando occupazione qualificata, innovazione e filiere lunghe che si estendono nei territori. Ma, appunto, serve un “se”. Gli investimenti, per generare ritorni, devono essere parte di un disegno. Non basta l’occasionalità delle commesse. Serve un piano. Serve che lo Stato definisca priorità chiare: cosa vogliamo fare nel navale? Cosa nello spaziale? Dove vogliamo andare nella sensoristica, nell’IA, nei sistemi unmanned, nella cyberdifesa? E ancora: quali aree industriali italiane vogliamo sviluppare come distretti produttivi duali? Quale ruolo possono avere i poli universitari e tecnici nella formazione delle nuove competenze? Come si integrano questi investimenti con il tessuto Pmi?

L’altra grande domanda che accompagna il riarmo europeo è quella del bilanciamento tra spesa militare e spesa sociale. È una questione concreta, che attraversa tutti i Paesi europei, e che in Italia si pone in modo particolarmente delicato. La manovra di bilancio è compressa, i margini sono limitati, le richieste sociali sono in aumento. L’idea di spostare miliardi verso la difesa deve essere accompagnata da una riflessione politica matura: come si concilia tutto questo con i bisogni di coesione interna? La risposta, ancora una volta, sta nella regia. Solo una politica industriale intelligente può trasformare il riarmo in crescita, e non in sostituzione. Solo una visione integrata può garantire che le nuove risorse producano occupazione stabile, innovazione trasversale, benessere diffuso, e non semplicemente un aumento di spesa fine a se stesso. È un discorso che va fatto prima che i numeri si trasformino in diseguaglianze. Prima che l’accumulo di spesa militare diventi oggetto di tensione sociale o di conflitto politico. Prima che il riarmo, da progetto strategico, si trasformi in fardello istituzionale.

L’Italia ha una posizione unica. Ha aziende leader in comparti strategici: navale, aerospazio, componentistica, elettronica, spazio. Ha un sistema di piccole e medie imprese in grado di lavorare sull’innovazione duale. Ha territori industrializzati in cerca di nuova linfa, e università capaci di costruire le competenze necessarie. Ha relazioni storiche e una posizione geografica che ne fanno una piattaforma naturale per il Mediterraneo e per l’Europa orientale. Ma ha bisogno, oggi più che mai, di un progetto nazionale di industria per la difesa. Un progetto che sappia unire Roma, Milano, Trieste, Torino, Taranto, Napoli, Brindisi. Che coinvolga Cdp, Sace, le banche, gli investitori istituzionali. Che costruisca una sinergia tra pubblico e privato fondata su obiettivi, non su emergenze. Serve che la Presidenza del Consiglio assuma un ruolo di coordinamento stabile. Che venga istituito un Comitato interministeriale per la politica industriale della difesa. Che si coinvolgano regioni, università, sindacati, camere di commercio. Che si costruisca un meccanismo di monitoraggio, di pianificazione, di verifica dei risultati.

L’Unione Europea può e deve fare la sua parte. Ma non sarà Bruxelles a costruire i distretti industriali italiani. Non sarà la Commissione a integrare il Politecnico di Torino con il sistema produttivo piemontese, o l’università di Napoli con l’industria aerospaziale campana. Non sarà un regolamento europeo a creare sinergie tra Leonardo, Fincantieri e le PMI. Per questo l’Italia deve agire da sola, e da subito. Con lucidità. Con determinazione. Con metodo. I piani europei – come il Fondo Europeo per la Difesa, o le iniziative EDIRPA e ASAP – sono opportunità importanti, ma presuppongono proposte credibili. E le proposte credibili non nascono dal caso. Nascono da chi sa rispondere alla domanda: chi fa cosa?

Il tempo della propaganda è finito. La difesa non è uno slogan. È una funzione costituzionale, una leva economica, una sfida sociale. Il riarmo non può essere né una scorciatoia né un feticcio. Può diventare un progetto strategico solo se si accompagna a una regia solida, trasparente, intelligente. Il governo italiano ha oggi la possibilità di guidare questa transizione. Ma servono decisioni chiare. Serve un piano. Serve che ogni attore – politico, industriale, economico – sappia quale ruolo ha, e quale responsabilità assume. Chi fa cosa? È la domanda più semplice. Ma anche la più urgente.

Quali rischi per la Difesa senza un piano industriale. Scrive Volpi

Di Raffaele Volpi

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