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Punto di contatto tra l’Oriente e l’Occidente, porta d’ingresso dell’Europa, snodo nevralgico per le infrastrutture energetiche da Russia e Caucaso meridionale, regione di transito verso la Mitteleuropa, osservatorio privilegiato per il cosiddetto “mediterraneo allargato”. La regione balcanica si configura più che mai strategica nei principali dossier internazionali che vedono coinvolte le grandi potenze. Tanto da aver innescato, nel pieno della sua instabilità politica e delle sue tensioni interetniche, una frenetica competizione tra Russia, Cina e Stati Uniti che mirano ad estendere la propria influenza nella regione togliendo più terreno possibile agli avversari. Una partita (geo)strategica a cui non poteva sottrarsi la Turchia, forte delle recenti mire neo-imperiali del Presidente Erdoğan, che – al pari della fascia che va dal Mediterraneo all’Asia Centrale, dal Nord Africa al Medio Oriente – ha inserito i Balcani a pieno titolo nel suo ambizioso progetto. Non senza complicazioni.

A differenza dei suoi competitors internazionali (fatta eccezione per la Russia in Serbia), la Turchia vanta profonde relazioni di natura etnica e religiosa con la maggior parte degli Stati balcanici nati dalla dissoluzione della Yugoslavia negli anni Novanta. Tali affinità sono riconducibili ai secoli di dominazione dell’impero ottomano nella regione, fino alla sua disgregazione dopo il primo conflitto mondiale. Una comune identità che tuttavia non si è mai sopita grazie alla costante presenza della successiva Repubblica di Turchia negli affari regionali e ad un lavoro di sobrio ma perdurante incremento del soft power anatolico negli Stati con componenti etniche di religione musulmana – Bosnia ed Erzegovina, Albania e Kosovo in primis. Con risultati che stanno iniziando a diventare tangibili. Le serie tv turche spopolano tra le frange più giovani delle società dell’area balcanica, l’agenzia turca Tika ha un giro d’affari di milioni di euro nell’ambito della cooperazione istituzionale e nella costruzione di centri culturali e scuole, il comune destino religioso passa attraverso la sponsorizzazione di imponenti moschee (tra cui la moschea Namazgah, la più imponente nei Balcani, inaugurata a fine 2024 nella capitale albanese). Duplice l’obiettivo della Turchia in questo senso: rafforzare i legami culturali e religiosi da un lato, ed arginare politicamente la presenza del movimento Hizmet legato a Fethullah Gülen, defunto avversario di Erdoğan.

Nonostante ciò, è l’ambito militare a conferire un notevole vantaggio alla Turchia. L’export di droni Bayraktar Tb2 è incrementato notevolmente con l’Albania, i cui militari sono addestrati dalle Forze Armate turche, mentre non è raro che venga fatto dono di attrezzature militari al governo bosgnacco (di riferimento per la popolazione di religione musulmana in Bosnia) e al Kosovo, che dagli anni Novanta e dopo la proclamazione dell’indipendenza nel 2008 mantiene con Ankara un rapporto che va ben oltre la fratellanza: Türkiye Kosova’dir, Türkiye ‘dir, “la Turchia è il Kosovo, il Kosovo è la Turchia”, riecheggiando la celebre espressione “due Stati, un popolo” già da tempo in uso da Erdoğan nei confronti del vicino Azerbaigian.

Tuttavia, le questioni ancora aperte in Kosovo – ben lontano da una normalizzazione con la Serbia e dunque dall’ingresso nell’Unione Europea di entrambi i Paesi – e l’aperto contrasto anatolico alle mire indipendentiste filo-serbe della Repubblica Srpska (entità autonoma all’interno del governo tripartito della Bosnia Erzegovina) rappresentano le principali linee di frizione con Belgrado, che potrebbe dunque minare l’avanzata imperiale neo-ottomana nei Balcani. Di maggioranza musulmana sunnita la prima, slavo-ortodossa la seconda, i motivi di scontro religioso non sono mai mancati nel corso dei secoli. Già nel 1389 i serbi vennero sconfitti dai turchi a Kosovo Polje (la celebre battaglia della “Piana dei Merli”), e cent’anni dopo il popolo slavo venne del tutto assoggettato all’impero ottomano, con una conseguente avversione che, attualmente, non è stata ancora superata. Si pensi ad esempio all’irritazione con cui la Serbia ha accolto il ruolo di Ankara quale protettrice della comunità islamica tra il 1992 e il 1995 nel conflitto in Bosnia Erzegovina, o meglio alla posizione della Turchia – Paese Nato – nei bombardamenti che tra il marzo e il giugno 1999 colpirono violentemente le zone strategiche di Belgrado. Segni visibili ancora oggi tanto per le vie della città quanto nella memoria dei serbi, che guardano con diffidenza anche la presenza di militari turchi tra le fila della Kfor stanziata in Kosovo. Partecipazione che già allora andava ben oltre il mero sostegno etno-religioso e politico, e che oggi si estende alla necessità di Ankara di controllare i corridoi energetici che passano attraverso i Balcani e provengono dal Mar Caspio, dall’Asia Centrale e dal Mediterraneo.

Nonostante ciò, la situazione di forte instabilità della Serbia – con le dimissioni del Primo Ministro Miloš Vučević e le proteste studentesche dilaganti nel Paese a seguito del crollo di una tettoia nella stazione di Novi Sad – e l’ombra di una crisi politica potrebbero avvantaggiare le mire espansionistiche di Erdoğan, che a fronte di un’inesistente Unione Europea e di una Russia impegnata a negoziare il futuro dell’Ucraina con gli Stati Uniti potrebbe doversela vedere (quasi) solo più con la Cina. In effetti, Pechino ha recentemente guadagnato terreno in Serbia impiegando la leva economica e militare, al fine di consolidare la propria presenza nei Balcani e raggiungere così il Vecchio Continente passando dalla porta laterale. Serva da esempio, a fine gennaio, la sospensione per volontà serba di alcuni contratti con la Russia per la fornitura di equipaggiamento militare, affidati in seguito alla Cina. Una mossa che ha permesso a Belgrado di dotarsi del prestigioso sistema di difesa aerea Fk-3 – unico Paese del continente europeo allargato e fuori dall’architettura securitaria della Nato a possedere un simile strumento. In materia di geoeconomia, invece, la stazione di Novi Sad, rappresenta un importante snodo infrastrutturale del progetto di collegamento ferroviario tra Belgrado e Budapest, finanziato quasi interamente dalla Cina per un investimento pari a quasi 4 miliardi di dollari. In linea con il modus operandi cinese, poco rilevanti appaiono le richieste dei manifestanti serbi di maggiore trasparenza del governo sugli investimenti e sulla presenza cinese nel Paese. Un costo che, tuttavia, potrebbe essere pagato proprio dalla Serbia, in cui non è da escludere che una crisi politica si propaghi con un effetto domino anche nei vicini Stati balcanici.

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