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In un brillante saggio apparso qualche giorno fa nella versione online di Foreign Affairs, il docente di Scienze Politiche dell’Università di Duquesne Mark Haas condensa le risultanze di un suo più ampio studio, mettendo in rilievo il ruolo decisivo della demografia e delle sue linee di tendenza sulla possibilità o meno che abbiano luogo conflitti armati – o quantomeno sulla loro intensità – in una piuttosto che in un’altra parte del mondo.

Ricco di suggestioni linguistiche (“Pax geriatrica”, “Peace through age” che irride il “Peace through strength” trumpiano), lo scritto evidenzia innanzitutto come una collettività soggetta a un inesorabile processo di invecchiamento risulti di pari passo poco propensa a innovare e quindi ad aumentare la propria produttività come motore dello sviluppo economico, con ciò attenuando la coscienza del proprio status di potenza e la fiducia nei mezzi a propria disposizione per far fronte a una guerra.

Inoltre, l’inclinazione a conservare la propria condizione attuale piuttosto che a esplorare nuovi orizzonti attraverso l’azzardo dell’azione bellica, riflesso a sua volta della più generale avversione al rischio propria delle fasce d’età più avanzate, porta sia a respingere con forza qualunque ipotesi di impiego di risorse pubbliche diverso da quello (pensioni, sanità) di cui normalmente quegli stessi strati della popolazione beneficiano sia a un rigetto in via assoluta della spesa militare. Semmai, le spese collegate alla sicurezza vanno indirizzate sul fronte domestico, a protezione di comunità che a causa dell’età avanzata si sentono sempre più vulnerabili, come nel caso della Cina dove, anche per ragioni di controllo della popolazione, questo comparto già nel 2020 ha superato quello della spesa militare in senso stretto.

Parallelamente – possiamo aggiungere – cala drasticamente la propensione ad assimilare collettività allogene e la tendenza a farsi alfieri di un’idea e di una vocazione imperiale che le coinvolgano e di cui si sentano parte; a prevalere, invece, sono sentimenti di ripiegamento etnico e nazionalistico, di rifiuto dell’altro, erroneamente interpretati come prodromi di posture assertive quando invece ne rappresentano la negazione.

Su questo versante, poi, così cruciale per i destini del mondo,le differenze tra regimi o tra diversi orientamenti politico-partitici all’interno dello stesso regime tendono ad annullarsiquasi del tutto.

I dati esibiti da Haas a corredo delle sue tesi lasciano poco spazio ai dubbi: in ogni anno dal 2012 al 2023, la percentuale media di persone di età pari o superiore a 65 anni per tutti i principali Stati che hanno avviato conflitti violenti è stata pari a 5, circa la metà della media di tutti i paesi del mondo nel 2024. Inoltre, il numero di conflitti armati avviati dagli Stati è storicamente aumentato parallelamente all’espansione del Pil e del Pil pro capite.

Poco sembra incidere, peraltro, il fatto che robotica e intelligenza artificiale tendano a sostituire progressivamente l’elemento umano sul campo di battaglia, come già drammaticamente evidenzia il conflitto russo-ucraino, ormai considerato da tutti gli strateghi del mondo come il (tragico) laboratorio delle guerre che verranno. Sebbene questo fenomeno tenda a mitigare il problema di una classe degli arruolabili che si restringe sempre più, è comunque il resto della popolazione, composto prevalentemente da anziani, che non segue sul piano del consenso le leadership nell’iniziativa bellica.

L’età media che si avvicina paurosamente al momento di non ritorno è anche l’unico vero problema che attanaglia la Repubblica Popolare Cinese nell’attuale congiuntura storica e che la costringe ad aumentare l’assertività e ad accelerare l’esecuzione di piani che ne colmino il divario tra status geopolitico e status economico/commerciale. Oltre tale punto di inflessione, Pechino si trova nell’impossibilità di giustificare con la propria popolazione il perseguimento di obiettivi militari anche non particolarmente ambiziosi, rischiando paradossalmente di cadere nello scenario opposto, ossia l’implosione.

Non deve stupire, come si accennava, che conflitti in senso proprio deflagrino solamente tra Stati con popolazioni relativamente giovani. Ne è dimostrazione la recente ‘Guerra dei 12 Giorni’, dove ad affrontarsi – peraltro in un contesto tuttora non completamente pacificato – sono stati la Repubblica Islamica (età mediana 34 anni, fonte: Worldometer) e il giovane, non soltanto di nascita, Stato ebraico (29), non a caso entrambi intrecciati con la dimensione storica dei popoli che li abitano nonché portatori di istanze messianiche che li trascendono. Quest’ultimo, peraltro, nasce proprio con l’obiettivo di porre gli Ebrei al riparo dalle persecuzioni che li hanno colpiti nel corso delle varie epoche: tuttavia, condurre un’esistenza in perenne stato di belligeranza fa sì che questa missione storica venga sì realizzata ma limitatamente, anche se difficilmente Gerusalemme può contemplare politiche che innalzino l’età media e stemperino il carattere spartano della propria popolazione.

Spettatore interessato di questo conflitto è l’altro grande soggetto geopolitico dell’area, ossia quella Turchia la cui età mediana non supera i 34 anni, con punte ancora inferiori nell’area anatolica. Il successo costituito dalla recente deposizione delle armi da parte dei Curdi del PKK e il suo pronto affacciarsi più a Sud – inclusa quella Gaza con cui non ha mai reciso del tutto i rapporti – proprio per tentare di sostituirsi a un Iran ancora visibilmente incapace di rialzarsi testimoniano di un dinamismo reso possibile, come condizioni imprescindibile, dal suo andamento demografico.

Israele, Turchia e Iran sono tutti Stati molto giovani con uno spiccato senso della storia e una peculiare concezione del proprio stare al mondo, cosa che non vale per moltissimi altri Stati che esibiscono il medesimo profilo demografico. Perché ciò non accade potrebbe essere un interessante sviluppo delle analisi di Foreign Affairs.

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Una collettività soggetta a un inesorabile processo di invecchiamento risulta di pari passo poco propensa a innovare e quindi ad aumentare la propria produttività come motore dello sviluppo economico, con ciò attenuando la coscienza del proprio status di potenza e la fiducia nei mezzi a propria disposizione per far fronte a una guerra

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