Nel primo numero del 2022 della prestigiosa rivista Foreign Affairs è apparso un articolo intitolato “The New Geopolitics of Energy”, scritto qualche settimana prima dell’inizio dell’invasione russa e nel bel mezzo della crisi energetica che ha portato i prezzi del greggio e del gas a impennarsi e a difficoltà di approvvigionamento. Tanto è vero che nel settembre del 2021 il vice primo ministro cinese, Han Zheng, ha ordinato alle compagnie energetiche statali di assicurarsi, a ogni costo, idrocarburi per fronteggiare l’inverno.
Nel loro articolo, gli autori osservavano come i leader europei chiedessero alla Russia di incrementare la produzione e l’export di gas, sottolineando il crescente ruolo di Mosca a garanzia della sicurezza degli approvvigionamenti europei. Ma non si riferivano solo al gas: Washington e Bruxelles, sostenevano gli autori dell’articolo, stavano contando sul petrolio russo per calmierarne i prezzi sui mercati globali.
Qualche mese prima, a Glasgow, si era svolta la COP26 delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Di giorno i governanti presenti indicavano l’abbandono delle fonti fossili come unica strada per raggiungere l’ambizioso e necessario obiettivo di abbattere le emissioni di CO2 entro il 2050, per limitare l’aumento delle temperature globali entro i 1.5C°. La sera, lontani da microfoni e telecamere, chiamavano il presidente dell’Opec richiedendo l’aumento della produzione di petrolio.
Guardare a lungo termine mentre si cerca di risolvere un problema a breve termine. Negli scacchi con il termine zugzwang ci si riferisce proprio alla situazione in cui un giocatore si trova in difficoltà perché qualunque mossa faccia subirebbe comunque una perdita immediata o nel breve termine.
Ed è una situazione analoga a quella in cui la comunità internazionale si trova dalla seconda metà del 2021, costretta da un lato a obbedire all’imperativo categorico di ridurre le emissioni di gas climalteranti, e dall’altro a fronteggiare gli aumenti vertiginosi dei prezzi del petrolio e soprattutto del gas. Aumenti che, accompagnati a un poderoso ritorno dell’inflazione, rischiano di alimentare il disagio sociale in Europa, negli Stati Uniti e in Asia e conflitti interni in un già precario Medio Oriente.
Dieci anni fa, è stato il prezzo del grano ad accendere la miccia delle primavere arabe. Oggi la situazione sembra ripresentarsi, con l’aggravante di un vertiginoso aumento dei prezzi degli idrocarburi e di altre materie prime in seguito alla pandemia e al conflitto ucraino.
Un allarme che è riecheggiato già nell’ottobre dello scorso anno durante la riunione tenutasi a Mosca tra i vertici degli apparati dell’intelligence dei Paesi Cis (che riunisce nove dei quindici Paesi dell’ex Unione Sovietica) e, di nuovo, al Cairo all’inizio di novembre durante l’Arab Intelligence Forum.
La copertina del libro
Il disagio sociale dovuto all’aumento dei prezzi non è un fenomeno nuovo. Nel 2019, circa ottantamila persone hanno protestato in Iran sfidando il regime con il gesto simbolico, ma non privo di conseguenze, di bruciare statue ed effigi dell’ayatollah Khomeini. Disordini si sono registrati anche in India e in Sud America senza dimenticare la protesta dei gilets jaunes in Francia nel corso del 2019.
L’aumento dei prezzi del gas e del petrolio è dovuto a diversi fattori. Innanzitutto, la drastica diminuzione degli investimenti nel settore upstream (esplorazione e produzione). Nel 2020, si calcola che siano diminuiti del 50% a livello mondiale e del 75% solo nell’Africa occidentale. Un trend che non potrà che accentuarsi: secondo l’Iea, entro la fine del 2022 le compagnie petrolifere dovrebbero annullare ogni nuovo investimento se si volesse raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050.
In secondo luogo, i primi effetti del cambiamento climatico: un inverno e una primavera piuttosto fredde hanno aumentato i consumi e non hanno consentito di riempire a sufficienza gli stoccaggi di gas. Fenomeno aggravato dalla drammatica siccità invernale che ha ridotto la produzione stagionale e, in prospettiva, l’apporto di energia idroelettrica, e dall’assenza di vento che ha fermato gli impianti eolici, soprattutto nell’Europa settentrionale, mettendo in pericolo la sicurezza energetica di molti Paesi.
Insomma, ci troviamo di fronte a una situazione catch 22. Se aumentassimo gli investimenti sul lato dell’offerta di idrocarburi il prezzo scenderebbe, ma aumenterebbero le emissioni mettendo a repentaglio gli obiettivi stabiliti con gli accordi di Parigi. Al fine di contenere il disagio sociale e di garantire una certa stabilità e pace sociale, da sempre gli Stati rentier, soprattutto quelli del Medio Oriente, del Nord Africa e del Golfo sussidiano il costo di petrolio e gas: più elevati sono i prezzi, maggiore è l’esborso statale che a un certo punto diventa insostenibile per le casse governative.
Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (Oecd), nel solo 2020, 192 Paesi hanno fornito questa tipologia di sussidi per un totale di 375 miliardi di dollari. Risorse finanziarie sottratte a potenziali investimenti pubblici nei settori della costruzione di infrastrutture, dell’istruzione, della sanità. In Libia, per fare un esempio eclatante, la necessità, rivelatasi vana, di contenere i dissidi sociali costa ogni anno al governo poco più del 15% del Pil.
Paradossalmente, i sussidi rischiano di alimentare, in certi casi, le entrate illegali di gruppi terroristici e organizzazioni criminali. Perché bassi prezzi in uno Stato favoriscono il contrabbando in Paesi limitrofi dove magari il governo non è così generoso. In Iran – che registra i prezzi del greggio più bassi al mondo, secondo solo a Venezuela e Sudan – i Guardiani della Rivoluzione contrabbandano i prodotti petroliferi in Iraq e Afghanistan.
Vi sono, infine, altre due variabili che rendono la risoluzione dell’equazione energetica globale sempre più complicata. Sono molti i Paesi che vivono quasi esclusivamente grazie ai proventi della vendita di idrocarburi. La transizione energetica, necessaria e ineludibile, priverà questi Paesi di ingenti introiti con il rischio – che diventa certezza più sale il peso in percentuale, sul Poò, del settore energetico – che diventeranno instabili socialmente e politicamente (si pensi ad Algeria, Libia, Egitto, Nigeria, Kazakistan e gli stessi Paesi del Golfo) creando effetti spillover nei Paesi limitrofi, tra cui proteste sociali che potranno sfociare in guerre civili e migrazioni in larga scala.
Oggi si è aggiunta una nuova variabile: la comunità transatlantica, che fino all’altro ieri contava sulla Russia come fornitore affidabile e dai prezzi ragionevoli, si trova ora in forte imbarazzo. Ne farebbe volentieri a meno ma non è semplice, da un giorno all’altro, ribaltare un sistema di interscambio di energia su cui si è costruito lo sviluppo industriale di oltre mezzo secolo. A causa della crisi ucraina, l’Unione europea ha scoperto che “il re è nudo”.
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