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La Groenlandia è al centro dell’attenzione internazionale, in particolare dei giganti dell’industria mineraria mondiale. Trascinata al voto dopo la crisi politica inaugurata a febbraio la comunità dell’isola artica, formalmente autonoma ma parte del Regno di Danimarca, è stata chiamata ad esprimere la sua volontà per trovare un nuovo esecutivo.

I risultati delle elezioni che hanno portato alle urne i 56.000 abitanti del territorio autonomo della Groenlandia vedono trionfare il partito Inuit Ataqatigiit (IA), forza di sinistra, indipendentista e ambientalista, con il 37% dei voti, condannando alla sconfitta per la seconda volta nella sua storia dopo la breve parentesi all’opposizione nel 2009-2013 il partito social-democratico, Siumut, che ha ottenuto il 29% del sostegno popolare.

A scatenare la crisi è stata la decisione dell’IA di ritirarsi dalla coalizione poiché contrario alla proposta del partito Siumut di bloccare le consultazioni pubbliche sui permessi d’estrazione di un sito terre rare, e di uranio, per il timore di possibili ripercussioni sull’ecosistema locale nella parte meridionale dell’isola. Guidato dal suo leader Mute Egede il partito, seppur non contrario a concedere i diritti d’estrazione alle compagnie straniere, è caratterizzato da un’impronta fortemente ambientalista e interessato ad assicurare prima di tutto la governance sostenibile delle risorse presenti sul territorio artico. Prima l’ambiente, poi tutto il resto.

CLIMA, RISORSE E SVILUPPO

La Groenlandia è senza dubbio il ground zero del cambiamento climatico, che ha avuto effetti tanto devastanti sugli equilibri dell’isola, quanto decisivi nell’aumentare la sua rilevanza geostrategica. La progressiva ritirata delle calotte artiche, infatti, restituisce nuove rotte marittime commerciali, oltre a dischiudere immense risorse naturali, tra cui petrolio, gas naturale e naturalmente metalli rari.

La ricchezza del sottosuolo, infatti, costituisce da una parte la possibilità per la comunità locale di raggiungere la desiderata indipendenza economica, dal momento che quasi un terzo del budget locale (circa 525 milioni di euro) dipende dai generosi sussidi del governo danese; dall’altra, mette l’isola al centro della competizione internazionale, diventando una vetrina per gli investimenti esteri, grazie anche alla maggior accessibilità e riduzione dei costi di trasporto, e un’area di competizione geopolitica.

Secondo le ultime stime dell’US Geological Survey, la Groenlandia ospita circa 1,5 milioni di tonnellate di terre rare, poco più dell’1,2% delle riserve globali, oltre a zinco, nickel, rame, titanio, cobalto, oro, metalli del gruppo del platino. Attualmente sono in fase di monitoraggio e in attesa di ottenere l’avvallo del governo di Nuuk due progetti australiani: quello di Klinglerne, situato nella punta meridionale dell’isola e ricco di terre rare pesanti (si stima sia il più ricco deposito di disprosio) con la licenza per l’esplorazione del sito ottenuta dall’azienda privata Tanbreez, e quello di Kvanefjeld al cuore del contenzioso politico.

Conosciuto localmente con il nome di Kuannersuit, il sito sarebbe ricco di neodimio (elemento che insieme al disprosio costituisce un ingrediente essenziale per la fabbricazione dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche, nei motori delle auto elettriche e nei dispositivi militari) e di uranio che è spesso associato a questi depositi. Secondo la compagnia australiana Greenland Minerals potrebbe diventare “il più grande produttore di terre rare occidentale” e potenzialmente il meno costoso. Infatti, l’economicità di questi progetti è fortemente legata alla conformazione geologica del sito: la concentrazione, in percentuale, delle terre rare più richieste sul mercato può essere un fattore decisivo nel determinarne la sostenibilità economica e finanziaria dei singoli siti. Secondo le stime dell’azienda, la capital expenditure per l’avvio della produzione potrebbe superare i 1,39 miliardi di dollari, soprattutto per la raffinazione e le infrastrutture a supporto. Gli sforzi dell’azienda australiana sono iniziati nel 2007, susseguiti da studi sulla fattibilità del progetto e sul potenziale impatto ambientale e sociale nell’ecosistema locale – requisiti essenziali per poter ottenere i permessi dal governo dell’isola, che ha ottenuto la proprietà sulle vaste riserve minerarie nel 2009.

IL RUOLO DELLA CINA

Ora che il partito IA ha avuto la meglio, forte della promessa durante la campagna di congelare le attività delle compagnie minerarie, è perciò evidente che la direzione che il nuovo governo imprimerà sul destino di questi progetti avrà un impatto significativo non solo per lo sviluppo e la diversificazione economica della Groenlandia – con l’industria della pesca che conta per il 90% delle esportazioni – ma anche per gli equilibri della catena del valore delle terre rare di cui la Cina gode di un controllo strategico lungo tutta la filiera.

Pechino, infatti, ha con il tempo intessuto una fitta rete di acquisizioni e compartecipazioni finanziarie attraverso la sua punta diamante nel settore: Shenghe Resources Holding Co Ltd, controllata dal governo cinese, è shareholder maggioritario con il 10% della proprietà di Greenland Minerals, oltre a possedere una quota simile in MP Materials, l’azienda americana finanziata dal Pentagono. Secondo l’azienda australiana, il progetto potrebbe garantire alla comunità locale introiti per 235 milioni di dollari. Una cifra che legittima la posizione di chi vorrebbe fare di questo sito una leva importante per l’autonomia economica della Groenlandia, sfruttando la crescente domanda di Stati Uniti e Unione Europea.

L’esistenza di queste risorse non garantisce di per sé una maggiore diversificazione delle forniture: infatti, come di recente confermato da un policy brief del Danish Institute for International Studies, il dominio della Cina degli stadi di processazione e del know how tecnologico per la raffinazione degli ossidi di terre rare estratti nei singoli elementi rende questi sforzi del tutto inefficaci. Il business plan di Greenland Minerals (con già più di 100 milioni di dollari investiti grazie alla tecnologia fornita da Shenghe), infatti, non farebbe altro che servire gli interessi cinesi: importare la materia prima per estrarne il valore aggiunto, contribuendo a consolidare la scalata high-tech e industriale di Pechino in questa filiera strategica. L’unico impianto fuori dalla Repubblica popolare cinese che produce terre rare raffinate in scala è in Malesia, controllato da un’altra azienda australiana, Lynas Corporation, mentre è di recente stato annunciato un consorzio industriale transatlantico.

SFORZO MULTILATERALE OCCIDENTALE

Oltre ad essere un territorio ricco di metalli critici, la Groenlandia è da sempre un avamposto geostrategico, per gli Stati Uniti, la Nato e tutti i Paesi nordici. Il crescente attivismo cinese nella regione – con la strategia della Via della Seta polare – rende la Groenlandia un territorio conteso per l’influenza diplomatica, nonché scientifica data la sua rilevanza nella lotta ai cambiamenti climatici. Nel 2019 l’allora presidente statunitense Donald Trump avanzò l’idea di un’acquisizione diretta dell’isola artica, scatenando le proteste del governo danese e della comunità locale. Seppur un’iniziativa intrisa di unilateralismo, l’uscita trumpiana segnalava la crescente importanza della Groenlandia negli equilibri globali. Oggi, quello che viene auspicato per contenere da una parte la presenza della Cina, dall’altra per rispettare la sovranità e gli interessi della comunità locale (comunque divisa nella gestione delle sue immense risorse, ma unita dal desiderio di indipendenza) è un maggior dialogo multilaterale per trovare un compromesso tra tutela dell’ambiente, sviluppo e sicurezza che possa beneficiare tutti gli stakeholder.

“La sfida per IA [il partito vincente]”, ha commentato su Reuters Dwayne Menezes, direttore del think tank londinese Polar Research and Policy Initiative, “sarà quello di spiegare al mondo che la Groenlandia sia ancora aperta al business e una giurisdizione mineraria attrattiva”.

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