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“Sì”: monosillabo usato dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in risposta alla domanda di un giornalista sul se ha deciso di rispondere all’attacco con droni che domenica ha colpito una base militare americana nel nord-est della Giordania, la Tower 22, causando la morte di tre soldati e il ferimento di decine di altri.

L’attacco è stato rivendicato da un gruppo di milizie sciite irachene sostenute dall’Iran, chiamato “Resistenza Islamica in Iraq”, che ha anche rivendicato altri attacchi contro basi e navi americane nella regione e che viene usato come ombrello propagandistico per le attività che quelle milizie sciite e sostenute dall’Iran stanno portando avanti in connessione con l’invasione israeliana della Striscia di Gaza. Non si tratta di nuovi gruppi armati, ma di un rebranding utile alla narrazione anti-israeliana/antisemita e anti-occidentale, che stanno coincidendo dal 7 ottobre — dopo il sanguinoso attentato di Hamas che ha aperto questa stagione di guerra.

Lo stesso richiamo alla “resistenza” serve a questo: resistenza all’espansione sionista e al “postcolonialismo” occidentale. Tanto che l’insieme di milizie regionali che l’Iran coordina, ma soprattutto arma, viene chiamato “Asse della Resistenza” dalle componenti più ideologizzate della teocrazia. Tra queste milizie c’è per esempio la Kata’ib Hezbollah irachena, che ha ammesso responsabilità sull’attacco alla Tower 22, annunciando simmetricamente di voler sospendere le attività dirette contro gli americani per non creare problemi al governo iracheno — ma di continuare la resistenza (è la propaganda, bellezza!).

Non basterà la (scarsa) garanzia della Kata’ib Hezbollah. Non adesso, dopo oltre 150 attacchi subiti dalle postazioni americane in Medio Oriente negli ultimi quattro mesi. Non adesso che ci sono tre militari americani uccisi nell’anno elettorale (in cui Biden sperava di arrivare al voto anche senza troppe perdite in quelle che il suo sfidante repubblicano, Donald Trump, definisce “endless war”, ossia gli impegni mediorientali statunitensi).

Biden ha parlato con le famiglie dei soldati uccisi e venerdì parteciperà al trasferimento dei loro corpi a Dover, nel Delaware, lo Stato che rappresentava come senatore. Ha espresso loro il suo cordoglio e la sua gratitudine per il servizio e ha assicurato loro che riceveranno tutto il sostegno necessario. Il presidente ha detto di ritenere l’Iran responsabile dell’attacco “nel senso che fornisce le armi alle persone che lo hanno fatto”. Ha aggiunto di non volere una guerra più ampia in Medio Oriente e di aver scelto una risposta “proporzionata e appropriata” che sarà attuata “in un momento e in un modo a nostra scelta”.

Secondo alcuni funzionari americani, la risposta potrebbe consistere in una serie di azioni mirate contro obiettivi delle milizie in Iraq e Siria, ma anche contro le unità iraniane che li accompagnano. L’Iran ha negato ogni coinvolgimento nell’attacco in Giordania e ha accusato gli Stati Uniti di interferire negli affari interni della regione, ma è noto che uomini dei Pasdaran sono fianco a fianco con quei miliziani. Ha anche avvertito che risponderà con decisione a qualsiasi tipo di aggressione. C’è un backchannel che sta garantendo a Teheran, via Washington, che saranno evitate azioni dirette su suolo iraniano, perché tra le opzioni sul tavolo sarebbe la più dura e rischiosa, poiché potrebbe scatenare una guerra aperta tra i due Paesi e coinvolgere altri attori regionali come Israele, l’Arabia Saudita e l’Iraq. Inoltre, potrebbe compromettere definitivamente i negoziati sul programma nucleare di Teheran, che sono già in stallo da mesi.

L’azione mirata sulle milizie sciite in Iraq e Siria è quasi scontata, essendo la reazione più appropriata, poiché colpirebbe direttamente i responsabili dell’attacco in Giordania e invierebbe un messaggio di dissuasione attiva all’Iran. C’è certamente la possibilità di rappresaglie da parte delle milizie, ma la deterrenza americana è da tempo saltata nella regione e per ricostruirla servono azioni severe e concrete. L’aspetto meno problematico, spiega una fonte regionale, è l’individuazione dei bersagli: “Sappiamo tutti tutto, anche di più”.

Al contrattacco militare potrebbe abbinarsi un’azione diplomatica e sanzionatoria per continuare a isolare e pressare l’Iran. Questa opzione potrebbe essere adeguata a favorire una ripresa dei colloqui sul nucleare e una riduzione delle tensioni nella regione, secondo chi suggerisce la massima cautela. Però, potrebbe anche essere vista come debole e inefficace, soprattutto se si considerano i dati eccellenti delle vendite di petrolio iraniane nel 2023 — teoricamente sanzionate ma tenute più che vive dagli ordini cinesi.

La sfida è diventata anche di carattere politico interno per Biden. Non deve sembrare debole, ma non può caoticizzare ulteriormente la situazione. L’amministrazione è divisa su due differenze di opinioni, tra falchi e colombe, che si rifletto anche nel panorama politico americano. I falchi accusano Biden di aver lasciato le truppe americane come “bersagli facili” e di aver mostrato debolezza e resa nei confronti dell’Iran. Tra questi ci sono i Repubblicani, ma anche alcuni membri degli apparati di intelligence (più prudente il Pentagono invece). Le colombe sostengono che gli Stati Uniti debbano assolutamente evitare di sembrare aggressivi — anche perché i rivali strategici cinesi li accusano di questo genere di postura quando parlano con gli interlocutori terzi globali. In ballo c’è una crisi regionale che John Detsch su Foreign Policy definisce la più pericolosa dal 1973.

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