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L’idea di questo libro mi è venuta nei giorni dell’emergenza epidemiologica che abbiamo vissuto in Italia a partire dalla primavera, o dal tardo inverno, del 2020. Soprattutto quando si è trattato di rispettare disposizioni governative in linea di massima necessarie per salvaguardare la nostra e altrui salute ma fortemente lesive di alcune libertà fondamentali che, essendo venuti al mondo e cresciuti in un periodo di pace e democrazia in Italia, avevamo dato troppo facilmente per scontate.

A questa situazione di emergenza, e di eccezione per molti aspetti necessitata, forse anche nell’intensità visto che ci trovavamo di fronte a un nemico sconosciuto, si sono aggiunti, come corollario, alcuni aspetti della gestione governativa, non solo nel nostro Paese ma da noi forse più che in altri, che urtavano non poco la nostra sensibilità liberale, e quindi anche istituzionale. Da una parte, infatti, assistevamo a una sostanziale messa in scacco del Parlamento; dall’altra, ad una comunicazione ossessiva e aggressiva, con un uso esagerato di termini in qualche modo “inquietanti” (ma che sono ormai entrati nel lessico comune) quali “distanziamento sociale”, “assembramento”, “coprifuoco”, ecc. Una comunicazione che poi i media, sempre alla ricerca del “sensazionale”, amplificavano all’inverosimile.

E non si capiva fin quanto si trattasse di un “gioco postmoderno” o di una convinzione diffusa nella “élite” al potere sull’”inferiorità” del “popolo”, Gli italiani venivano comunque trattati quasi come infanti da educare con una alternanza di promesse e minacce. Italiani che, da una parte, si dimostravano invece molto responsabili nei loro comportamenti, ma dall’altro, spaventati e senza il conforto più di una fede (fosse pure secolarizzata), sembravano quasi reclamare questa sorta di paternalismo statale. Se a questo aggiungiamo la gestione statalistica, assistenzialistica, anti-industrialista (tutta fatta di molti bonus e pochi investimenti) della cosiddetta “ripartenza”; o anche, la creazione di macchine burocratiche di task force e consulenti che si sostituivano alla politica e all’amministrazione ordinaria; il disagio di un liberale è ancora più comprensibile.

In pochissimi però riuscivano sul momento a tradurre in concetto questo sentimento che ci assaliva. Chi si opponeva, fra l’altro, ed era l’altra faccia del problema, scadeva con facilità nello sbracamento “populistico” del “negazionismo”, dei no vax, e persino del “complottismo”. Il che, nell’ individuare un “Grande Fratello”, più o meno ispirato dalla Cina, che manovrava i fili da una non meglio identifica “stanza dei bottoni” sovranazionale, e che voleva instaurare una “dittatura sanitocratica”, i “complotto-negazionisti” dimostravano quanto meno di non comprendere le dinamiche di potere nelle nostre società complesse e tendenzialmente globalizzate. Là dove, appunto, le relazioni di potere sono multiple, e non possono concepirsi secondo uno schema gerarchico che va in modo univoco dall’alto in basso (Foucault), e dove anche la conoscenza è da concepirsi diffusa fra mille soggetti la conseguenza delle cui azioni su larga scala sono per principio inintenzionali (Hayek).

Da questo stato d’animo di insoddisfazione muovono le pagine seguenti. Che, se trovano nell’attualità la propria genesi, si pongono su un altro terreno, teorico-politico e persino filosofico-speculativo, affrontando un problema che forse i liberali hanno dato ultimamente troppo per scontato e “risolto”: quello dei rapporti fra il concetto a loro più caro, la libertà, e la sicurezza. Che non è solo quella sanitaria, ovviamente. Tanto più grave questa trascuratezza se è vero che l’età della globalizzazione, come aveva prontamente individuato ai suoi albori Ulrich Beck, e come poi i fatti hanno drammaticamente dimostrato, si configura come una “società del rischio globale” in cui il “governo delle emergenze” si sovrappone e spesso si sostituisce a quello ordinario. La paura, che genera insicurezza, diventa così oggetto e soggetto stesso del Politico in maniera visibile, anche se poi, come vedremo in queste pagine, essa è stata sempre un enorme deposito di produttività politica in tutta la modernità. E il problema, infatti, che è teoretico, qui lo poniamo anche storicamente (fra l’altro crediamo con Vico che “la natura di ogni cosa è nel loro nascimento”).

Il libro è solo uno “schizzo”, che vuole segnare un percorso, fra i tanti possibili, all’interno della modernità. Con la consapevolezza che si tratta di un’età che, radicalizzando i suoi presupposti, è ormai giunta al capolinea. Che è poi anche la fine di un certo modo di concepire il liberalismo, che però, per i buoni risultati che ha dato, non può certo essere buttato al vento. Bisogna difendere perciò lo Stato liberale ma anche prepararsi all’avvento di nuove forma istituzionali e politiche volte a garantire l’umana esigenza della libertà. Le quali saranno gli uomini, con le loro imprevedibili azioni, a far maturare. Ma gli uomini sono anche essere pensanti, oltre che storici. Riflettere sul passato non è inessenziale, anche se non è determinante, rispetto alla costruzione del futuro della libertà.

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