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«Era alto e snello, aveva la pelle scura e camminava a grandi falcate, tanto che pensai dovesse essere un indiano mezzo sangue, e non un europeo. Oscillava un poco, ma si manteneva sempre eretto, lasciando pendere il capo leggermente di lato, come un solitario, sempre in ascolto di qualcosa» (da Hans-Gerd Koch, Quando Kafka mi venne incontro…, 2007, Nottetempo Edizioni).

Così ricorda Franz Kafka (1883-1924) Dora Diamant (1898-1952), l’ultima donna nella vita sentimentale dello scrittore, quella che gli fu accanto nel momento della dipartita. Certo, egli aveva amato anche Felice Bauer («mento prominente – noterà lo scrittore – poco attraente»), ma, nonostante ciò, ne subì il fascino sino alla pianificazione delle nozze poi annullate per il peggioramento della tubercolosi. Successivamente, conobbe Milena Jezenska, sua traduttrice, sposata infelicemente con il critico letterario Ernst Pollack (non ebbe il coraggio di lasciarlo) e dunque l’amore, come con Felice, risultò platonico. Infine un brevissimo fidanzamento con Julie Wohryzek, una umile e gentile cameriera, ci informa Max Brod (suo amico).

Nell’estate del 1923 lo scrittore fa visita a sua sorella Valli (Valerie) e ai suoi nipotini in vacanza presso la colonia marina di Graal-Müritz, sul Baltico (attualmente nella provincia di Rostock), per respirare un po’di iodio e trovare sollievo ai polmoni malati: lì conosce Dora Diamant e qui inizia L’amore secondo Kafka (2024) di Judith Kaufmann e Georg Mass.

Proporre un bio-pic su Franz Kafka è rischioso sia perché non abbiamo note biografiche sufficienti di chi lo ha conosciuto personalmente, sia perché essendo un autore con molti lettori, se non nella totalità dei romanzi, almeno per quanto concerne alcuni racconti, tra cui il celebre La metamorfosi (1915), ogni lettore si è fatto una sua idea dell’uomo Franz Kafka, un suo film nella testa, soprattutto coloro che visitando Praga, negli ultimi trent’anni, non si sono potuti sottrarre alla visita obbligata, a cura delle guide, sulle due dimore del grande scrittore.

Judith Kaufmann e Georg Mass concentrandosi sugli ultimi undici mesi della sua vita, raccontano l’improvvisa eruzione, un autentico colpo di fulmine, e il rapido sviluppo di un grande, vorace e travolgente amore, tra il quarantenne scrittore Franz (Sabin Tambrea) e la ventenne, insegnante e attrice, Dora (Henriette Confurius).

Chi ha incrociato i Diari di Kafka sa che egli amava recarsi al cinema, al Bio Lucerna di Praga (costruito nel 1909), a quel tempo, tra Wenzelsplatz e la Wassergasse (il cinema ancora vive! L’ entrata oggi è su via Vodičkova, n. 36, la strada che taglia a metà l’attuale Piazza San Venceslao). E, da assiduo spettatore di cinema, non doveva essere, Franz Kafka, un tipo triste e cupo, come il lettore medio, influenzato dalle sue assurde storie, erroneamente pensa egli fosse.

Infatti, nelle prime pagine dei Diari (curati da Max Brod – compare nel film: è il rassicurante e incoraggiante Manuel Bubev-  dovevano esser distrutti insieme a tutte le migliaia di fogli di racconti e romanzi: così egli chiese all’amico fraterno), pagine che all’università abbiamo divorato nella bella traduzione di Remo Cantoni, possiamo scoprire come Kafka amasse il film comico. Siamo nel 1913 e Franz, appena rientrato in casa dopo uno spettacolo cinematografico, sta ancora ridendo, non può trattenersi dal raccontare una pantomima (così si chiamavano i corti film comici) a sua sorella Ottla, impegnata in quel momento «[…] nella stanza da bagno».

Quindi, appare riuscita, perché oggettiva ed equilibrata, la sapiente costruzione del personaggio Kafka cui Sabin Tambrea, sotto una direzione registica attenta alle «piccole cose» della recitazione, dà vita. Non era semplice mantenere il personaggio in un credibile bilanciamento psicologico tra i diversi stati d’animo che lo caratterizzano: la preoccupazione per l’inesorabile avanzare della tubercolosi; i tesi rapporti con il padre (mai fisicamente sul set, ma incombente tramite lettere e telefonate); la malattia nella sua fase acuta, resa persino con forti accenti documentaristici (dura la scena dal medico che lo cura con un grosso attrezzo meccanico, infilato in bocca, senza anestesia); e, poi, i momenti felici.

Su quest’altro versante della vita ecco, per esempio, Franz, sulla spiaggia, circondato, evangelicamente, dai bambini della colonia in attesa che racconti loro una storia. E, soprattutto, le belle e assolate giornate con l’amata Dora: sulla moto, a passeggio sulla battigia, l’improvvisata nuotata in mare o, ancora, a piedi attraverso un verde vigneto: Franz sorride e ride, abbraccia Dora, si amano, come non ce lo saremmo aspettato. Scopriamo così, grazie a Kaufmann e Maas, che Franz Kafka è un giovane quarantenne luminoso, da far innamorare una bella e intelligente ventenne, non un uomo malinconico e mesto, involontariamente fissatosi nel nostro immaginario per mera metonimia psicologica con i suoi sfortunati personaggi (primo fra tutti Gregor Samsa).

Sulla bravura di Henriette Confurius poggia metà della felice riuscita di L’amore secondo Kafka: ella ha perfettamente capito il suo personaggio come chiestole dagli autori, a momenti deve “tirare” lei la scena e Tambrea va in secondo piano; in altri snodi narrativi deve limitari ad osservare Tambrea-Franz nelle sue impennate di nervosa creazione narrativa, negli attacchi della malattia, nell’accettare le sue esitazioni d’amore causate da improvvisi lampi di vuoto, quelli di una morte annunciata, balenanti nei suoi occhi scuri e profondi.

La sceneggiatura di Georg Maas e Michael Gutmann, pur permettendosi qualche infedeltà biografica utile alla drammaturgia (siamo nel 1923, e Franz sta scrivendo la Metamorfosi: in realtà il racconto fu pubblicato nel 1915), procede per cambi frequenti di ambienti e situazioni, interni ed esterni in sostenuta alternanza narrativa, onde evitare la cisterna del kafkismo da kammerspielfilm, nella quale, registi meno esperti, vi sarebbero finiti dentro a piombo.

La joie de vivre di Kafka, «la felicità più grande risiede nelle piccole cose», ama ripetere lo scrittore, che i due registi trasmettono allo spettatore, intrattiene rimandi stilistici con il delicato modo di raccontare l’amore di un Eric Rohmer o di un Milan Kundera, e nel trasformare il caso, quando si tratta dell’amore, come nei due autori, in destino. Così Dora appare chiaramente come la logica conclusione della intensa e tormentata ricerca di una agognata educazione sentimentale di un giovane uomo.

Un plauso va alla fotografia sinestesica della coregista Judith Kaufman. Nei momenti tristi degli interni (la spoglia camera a Praga; il sanatorio) ecco un leggero filtro verdognolo a raffreddare l’ottimismo; nelle pulsanti impennate d’amore (dal mare blu scuro, alla gialla campagna, ai verdi vigneti) prorompono i vividi pastelli come rifranti attraverso un cristallo di Boemia. Se lo scopo del cinema è illuderci di vivere dopo la morte, anche per solo due ore, L’amore secondo Kafka ci riesce.

Era alto e snello, era bello. Era Franz Kafka

In “L’amore secondo Kafka” (2024), di Judith Kaufmann e Georg Maas, seguiamo l’ultimo anno di vita (1923) di Franz Kafka (1883-1924), segnato dalla tubercolosi, un ineluttabile e lento congedo dal mondo, illuminato da un coinvolgente e ricambiato amore: quello per Dora Diamant. Un film delicato, dal tocco alla Eric Rohmer, che non sarebbe dispiaciuto a Milan Kundera

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