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Il dialogo libico procede, ma fatica. L’Onu, che guida le operazioni di contatto tra le varie parti, continua a organizzare le riunioni via Zoom, ma sostanzialmente tutto resta fermo perché i colloqui si sono inceppati sul meccanismo di selezione dell’autorità esecutiva. Ci sono varie proposte sul tavolo, ma nessuna soddisfatta una maggioranza sufficiente e tutto sta diventando via via più complicato su diversi livelli.

Sulla fatica delle Nazioni Unite fa da fotografia la rinuncia all’incarico del rappresentante designato, il bulgaro Nickolay Mladenov, che prima aveva accettato il ruolo di inviato speciale e poi ha rinunciato – formalmente per motivi famigliari che in precedenza non aveva accampato riguardo alla sua candidatura. Pensare che a questo punto l’attuale facente funzione, l’americana Stephanie Williams, prenda il ruolo effettivo non è una previsione troppo azzardata.

Non sembrano d’altronde esserci sostituiti. Il problema di Williams, che si è spesa molto in questa fase, sta nell’aver spinto troppo un accordo Est-Ovest composto dall’asse Saleh-Bashaga, ossia quello tra il presidente del Parlamento di Tobruk e il ministro dell’Interno del governo onusiano Gna. Questo abbinamento non sta funzionando, e trova diverse tipologie di opposizioni.

Il presidente del Consiglio presidenziale, il premier Fayez al Serraj, dal canto suo si sta muovendo come può. Ha certamente compreso che le dimissioni annunciate mesi fa non potranno essere effettive a causa dei problemi che il dialogo sta riscontrando, e per questo ha avanzato un pensiero: trovare un primo ministro che possa prendere parte dei suoi incarichi nell’Est. Serraj vorrebbe che fosse un uomo vicino a Khalifa Haftar, dato che il capo miliziano della Cirenaica ha ripreso spazi nel processo, ma questo ha due ordini di problemi.

Il primo riguarda proprio Haftar, che difficilmente accetterà di dare un nome a Serraj perché è consapevole che quello – andando a fare il premier – potrebbe scaricarlo in termini di rappresentatività. Il secondo problema riguarda uno sbilanciamento sostanziale che il sistema amministrativo prenderebbe a favore della Cirenaica, dato che il presidente parlamentare Agila Saleh è un uomo dell’Est. Questo fattore di dis-equilibrio non passa in Tripolitania, chiaramente.

Nella regione occidentale, d’altronde, c’è anche un problema di carattere interno. Il ritorno a Tripoli di Haithem Tajouri, che finora ha vissuto a Dubai, fa il paio con la visita di una delegazione dell’intelligence egiziana e sta ri-bilanciando il peso anti-turco in Tripolitania. Un aspetto che sta mettendo in difficolta il ministro Bashaga, collegato ad Ankara e alla galassia complessa dei Fratelli musulmani. Tajouri, come gli egiziani che hanno incontrato la leadership del Gna, servono a Cairo e Abu Dhabi per rimettere un piede nella capitale libica dopo aver sostenuto le ambizioni militari di Haftar.

Non bastasse, un ruolo non secondario lo sta assumendo lo scontro di potere in atto tra Serraj e la Banca centrale. L’istituzione economica più importante del paese contro il potere amministrativo, un testa a testa che non rende certo agevole il quadro interno tripolino. Tra l’altro tutto questo si sta riverberando sul pagamento dei mercenari siriani mossi dalla Turchia in chiave anti-Haftar e sulle milizie che non stanno ricevendo compensi. Attori che stanno creando non pochi problemi.

Tutta questa serie di fattori sotto certi punti di vista agevola l’asse Turchia-Russia, che fanno gioco su una situazione di stallo perché con un’eventuale stabilizzazione politica e amministrativa – una quadra trovata dall’Onu, per esempio – si troverebbero autenticamente limitati. Per esempio dovrebbero spostare le proprie rappresentanze militari, ma Ankara e Mosca hanno creato quelle sfere di presenza con l’obiettivo di rimanere, e non di lasciare, tutto questo rende ancora il futuro della Libia molto incerto e la stabilizzazione molto lontana.

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