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Devono essersi fatti forti i malumori all’interno del Partito democratico, se tutto di un colpo i dirigenti hanno tirato fuori il coraggio che finora non avevano dimostrato nei confronti del presidente del Consiglio. È vero, infatti, che, all’interno della maggioranza, i rapporti di forza sono quelli che sono (3 a 1 per i grillini, diciamo). Ma è pur vero che senza il Pd questo governo semplicemente non esisterebbe, così come non esisterebbe l’occhio di riguardo che finora Bruxelles sembra aver riservato al nostro Paese.

Ha iniziato ieri addirittura il segretario, Nicola Zingaretti, chiedendo al governo (cioè anche un po’ a se stesso pur non facendone parte) un “coinvolgimento e confronto con le forze di opposizione”, che a ben vedere è altra cosa rispetto al generico “dialogo” che ogni tanto promette il presidente del Consiglio e che si riduce nella sostanza a un umiliante informativa in extremis a decisioni già prese. Ma ancora più categorico è stato oggi, nel dibattito al Senato sulla relazione di Giuseppe Conte, il capogruppo dem Andrea Marcucci, che ha chiesto addirittura la famigerata “verifica”, pronunciando la parola tabù: “Il presidente Conte valuti se i singoli ministri sono adeguati all’emergenza, apra la verifica, abbiamo bisogno di una maggioranza coesa, ancora a lei l’onore di aprire all’opposizione, trovi lei il luogo dove confrontarsi costantemente con il Parlamento. Il Parlamento rappresenta il Paese, il Parlamento va ascoltato”.

È vero che subito dopo è arrivata la piena fiducia a tutto il governo, di Zingaretti stesso, ma Marcucci è persona troppo avveduta e in vista nel partito per parlare di una semplice gaffe. Delle due l’una: o la strategia del gettare un sasso nello stagno e poi nascondere la mano, era stata concordata con il segretario; oppure l’uscita di Marcucci, netta nei toni e nel contenuto, segna una divisione interna al nazareno molto seria e comunque è spia di un disagio a dir poco intenso (oltre che diffuso). Ed è qui che si inserisce Matteo Renzi, che sa che l’unica strategia che Italia Viva può seguire è in questo momento quella del “partito di lotta e di governo”. O, se preferite, di un’opposizione interna a Conte pervasiva e capillare, atta anche a crearsi un alibi per il domani, e nello stesso tempo una impossibilità di fatto a segare i piedi alla sedia su cui si sta seduti e che, pur nella sua scomodità, è in questo momento l’unico appoggio sicuro che il neopartito ha.

Quanto poi ami quel Conte che lui stesso ha contribuito a reinsediare un anno fa sullo scranno di Palazzo Chigi, lo dimostra il tono sprezzante con cui stamattina lo ha apostrofato dalle colonne di Repubblica ricordandogli che, senza quelli che il premier ha bollato come “giochini politici”, lui oggi starebbe all’Università di Firenze ad occuparsi “di come funziona la didattica online da Novoli”. Se a tutto ciò si aggiungono le convulsioni politiche che stanno portando alla scissione in casa pentastellata, con Davide Casaleggio e Alessandro Di Battista che di fatto stanno boicottando i prossimi “Stati Generali” del Movimento, si capisce come Conte, nonostante i poteri avocati a sé con la proroga dello stato di emergenza, si trovi pressoché impossibilitato ad affrontare come si dovrebbe (e come avviene negli altri Paesi) l’emergenza sanitaria e le altre ad essa collegate.

Siamo di fronte, come ha scritto con la solita lucidità il professor Carlo Galli, ad una paradossale “eccezione senza decisione” (Carl Schmitt sarebbe rabbrividito!). Il tentativo di coprire questo deficit di legittimità politica e democratica, che è il vizio o il “peccato originale” che questo governo si porta dietro sin dalle origini (“la natura nelle cose è nel loro nascimento”, dice Giambattista Vico), è del tutto evidente con il trasbordare della comunicazione e del marketing politico made in Rocco Casalino. È un metodo che all’inizio può anche funzionare, e lo si è visto, ma che è destinato alla lunga a trasformarsi in un boomerang per chi fa su di esso affidamento esclusivo. Oltre ad essere un ulteriore stress per un Paese già prostrato e per la sua coesione sociale.

La politica, almeno in democrazia, si prende sempre la sua rivincita, prima o poi. La speranza è che quel poi non sia tanto poi da essere tardi.

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