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Ho letto con molto interesse la conversazione tra Emanuele Rossi e Nona Mikhelidze dello IAI sul conflitto del Nagorno Karabakh e sulle sue implicazioni internazionali. Come ricercatore universitario svolgo da circa dieci anni attività di ricerca e didattica sui temi della storia e delle società caucasiche. Condivido molte delle osservazioni di Mikhelidze, a cui mi permetto di aggiungere alcune considerazioni di segno differente. 

In particolare credo che vada ripensata l’affermazione di Mikhelidze: “l’Armenia è invece una giovane democrazia, dove il premier, Nikol Pashinyan, ha concentrato molto della sua narrazione in questi ultimi due anni sul differenziare se stesso e il suo Paese da quelli attorno”. È vero che Pashinyan è giunto al potere sull’onda di una sollevazione popolare, nella primavera del 2018, ed è altrettanto vero che la sua ascesa – di cui forse in giorni si consuma l’ultimo atto – aveva generato speranze anche in Azerbaigian per una risoluzione diplomatica del conflitto. Per tutto il 2018 il cambio di governo in Armenia aveva lasciato presagire una svolta diplomatica e pacifica sul conflitto che divideva i due Paesi dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. 

L’incontro in Tagikistan tra il presidente Aliyev e Pashinyan dell’ottobre 2018 aveva introdotto un clima di reciproca fiducia e la volontà di distensione, dopo la “guerra dei quattro giorni” dell’aprile 2016. 

Dalla metà del 2019 il governo Pashynian ha però cambiato rotta, assumendo una posizione sempre più radicale e oltranzista sulla questione Nagorno Karabakh. Cosa c’entra questo col suo essere, o meno, una democrazia? 

Uno Stato democratico, per quanto giovane, si misura su diversi parametri incluso il rispetto dello stato di diritto e del diritto internazionale. Come noto l’accordo del 10 novembre per la sospensione delle ostilità tra Armenia e Azerbaigian prevede – come punto qualificante – il ritiro delle truppe armene da altri tre distretti del tutto esterni al Nagorno Karabakh, poiché altri quattro dei setti totali erano già stati liberati durante le settimane di combattimenti; territori che non avevano una  presenza etnica armena, o l’avevano molto ridotta, e che erano stati occupati nel 1993-94, espellendo la popolazione azerbaigiana locale. La politica interna di Pashinyan non ha dato la sensazione che il suo governo procedesse speditamente verso la democrazia che aveva promesso, ma nell’ottica di questo tema specifico occorre sottolineare come il primo ministro armeno abbia sprecato la legittimità democratica e il credito internazionale ricevuto al suo esordio non facendo nulla per separare la sorte dei sette distretti, abitati interamente dagli azerbaigiani prima del conflitto, da quella del Nagorno Karabakh propriamente detto, dove convivevano entrambe le comunità, azerbaigiana e armena. Non a caso lo stesso Pashinyan si è rammaricato di non aver accettato le condizioni del 10 novembre un anno fa.  

Sin dal 1918, con il tentativo di Woodrow Wilson di costruire un nuovo ordine internazionale postbellico, la democrazia liberale (per essere tale) mantiene una condotta interdipendente tra l’azione internazionale e le politiche interne. Il rispetto del diritto internazionale è uno dei fronti dove si produce questa interdipendenza. Non si può essere democratici entro i propri confini e agire in maniera autoritaria nel contesto internazionale. 

Pashinyan avrà anche intrapreso timide riforme democratiche interne, ma sul fronte della questione Nagorno Karabakh la sua “narrazione”, per usare un termine utilizzato da Mikhelidze, è stata di stampo autoritario e nazionalista. Ha sorpreso in piena estate 2020, nel cuore della pandemia di Covid e poco dopo una prima ripresa degli scontri con l’Azerbaigian, la notizia dell’insediamento di coloni libanesi di etnia armena nei territori esterni al Nagorno Karabakh ma sotto controllo armeno. Territori, vale la pena di ricordare, abitati fino al 1993 da azerbaigiani. Una mossa assolutamente incongrua e provocatoria, anacronistica, che ricorda più la colonizzazione delle paludi pontine di mussoliniana memoria che una moderna democrazia liberale, per quanto “giovane”. Quindi non è vero che Pashinyan abbia “impostato parte del suo pensiero nel tentativo di liberare la politica armena da una situazione, quella del territorio conteso, di cui era diventata ostaggio”. Si è anzi calato nel piatto del Nagorno Karabakh, pensando forse di bilanciare il prezzo politico delle riforme interne. 

Le terribili immagini del parlamento armeno, la notte della firma dell’accordo con Russia e Azerbaigian, invaso e vandalizzato da una folla di dimostranti arrabbiati (che ha picchiato brutalmente il presidente del Parlamento) rendono appieno l’immagine dell’immensa fragilità della politica armena. Sarebbe quindi un errore contrapporre un asse Mosca-Ankara-Baku a una democrazia che in realtà non lo è. L’Armenia, in questa crisi, ha utilizzato o addirittura inasprito l’utilizzo di un armamentario ideologico nazionalista o addirittura “millenarista” autorappresentandosi come avamposto cristiano contro l’Islam etc. Questa “narrazione” poteva funzionare all’inizio degli anni Duemila, all’epoca della presidenza Bush e della “coalizione dei volenterosi” in Iraq. Oggi appare del tutto anacronistica e inadatta a gestire le sfide della complessità internazionale.  

Una dimensione ideologica del tutto estranea alla cultura politica delle democrazie liberali avanzate, laiche, multiculturali e cosmopolite. L’Armenia di Pashinyan si è dimostrata, al contrario, nazionalista e confessionale. 

(Foto: Wikipedia)

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