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Giuseppe Conte ha detto sì. Ma anche se. L’ormai quasi ex presidente del Consiglio ha pubblicamente dato il suo ok alla nascita del prossimo governo guidato da Mario Draghi. Non che fosse necessario ovviamente, ma è chiaro che il suo via libera – arrivato dopo le invocazioni in tal senso del Partito democratico, vedi l’intervista di Dario Franceschini all’Huffington Post, e in seguito all’apertura di questa mattina da parte di Luigi Di Maio – dovrebbe facilitare il processo di avvicinamento dei cinquestelle, o comunque di una loro parte rilevante, all’ex presidente della Banca centrale europea.

Attenzione però, perché il diavolo, come sempre accade, si nasconde nei dettagli: nell’incontro con la stampa di oggi pomeriggio Conte ha insistito ripetutamente sulla natura politica, e non tecnica, dell’esecutivo che Draghi sta cercando di far nascere in queste ore. “Auspico un governo politico che sia solido e abbia sufficiente coesione: le urgenze del Paese richiedono scelte politiche che non possono essere affidate a una squadra di tecnici”, ha affermato il premier dimissionario di fronte ai giornalisti. Parole in linea con quelle pronunciate dallo stesso Di Maio fin dalla serata di ieri.

Ma in che senso governo politico? E cosa voleva dire Conte quando ha utilizzato insistentemente questa espressione? Da una parte si può certo pensare che possa contribuire a rompere la diffidenza del movimento verso l’esperienza di Draghi. Le parole, si sa, sono importanti, specialmente per una forza politica, i cinquestelle appunto, tenuta a battesimo dalla nascita di un altro governo, questo sì squisitamente tecnico, come quello guidato tra il 2011 e il 2013 da Mario Monti. In quest’ottica l’indicazione di Conte sarebbe servita soprattutto a spingere i pentastellati a sostenere il prossimo esecutivo.

C’è però anche un’altra interpretazione, che si può sommare e non sostituire alla precedente: ovvero che Conte, nel suo ostinarsi a parlare di soluzione politica, abbia in qualche modo tentato di orientare le scelte di Draghi, con una serie di indicazioni o addirittura di tentativi di veti in grado potenzialmente di rendere più stretta la via dell’ex presidente della Bce.

La cui missione, è bene ricordarlo, consiste nella formazione di un governo “di alto profilo e senza formula politica”, secondo le parole pronunciate dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Tradotto, un esecutivo che quantomeno provi a porsi l’obiettivo di essere di unità nazionale e che quindi possa godere della più ampia base parlamentare possibile, in modo che possano sostenerlo non solo i partiti dell’alleanza giallorossa, per il momento naufragata, ma pure eventualmente quelli di centrodestra. A partire da Forza Italia e dalle varie formazioni centriste, tra cui l’Udc e Cambiamo di Giovanni Toti, per arrivare forse alla Lega e perfino, ma oggettivamente è difficile che accada, a Fratelli d’Italia (qui l’intervento di Alberto Michelini sul nostro giornale).

Aspirazione che non è ancora chiarissimo come possa allinearsi con l’opzione politica invocata da Conte. Il dubbio, lo diciamo senza troppi giri di parole, è che il premier dimissionario con queste parole abbia in qualche modo voluto minare l’eventuale apertura a destra dell’esecutivo, soprattutto alla Lega che ci starebbe pensando. Oppure che abbia provato a dare un’indicazione precisa sulla composizione della squadra di governo che appunto, a suo avviso, dovrebbe essere politica e non tecnica.

Da questo punto di vista Draghi sembrerebbe orientato a un mix, così come fece Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 nel precedente a cui pare che l’ex presidente della Bce voglia ispirarsi. Tuttavia insistere sulla natura politica del prossimo esecutivo sembra in qualche modo andare nella direzione di voler ridurre il margine di scelta e di movimento dello stesso presidente del Consiglio incaricato e, al tempo stesso, anche di rendere alla fine comunque meno probabile la convergenza di un pezzo del centrodestra. Difficile non ritenere che più il governo sarà politico e più sarà complicato per la destra, soprattutto quella di Matteo Salvini, farne parte.

Considerazioni su cui si interrogano gli addetti ai lavori mentre Draghi ha dato il via alle consultazioni dei partiti e mentre Conte si prepara a gestire la sua prossima uscita da Palazzo Chigi. Cosa farà l’ex avvocato del popolo dopo quasi tre anni di governo? Le parole di oggi ci dicono che non abbia gran fretta di tornare all’accademia. Continuerà a fare politica, pare di capire o come prossimo capo politico dei pentastellati (“agli amici del Movimento 5 stelle dico: io ci sono e ci sarò”) oppure come possibile federatore, in stile Romano Prodi per intendersi, dell’alleanza giallorossa del futuro (“agli amici Pd e di Leu dico che dobbiamo lavorare tutti insieme perché l’alleanza per lo sviluppo sostenibile che abbiamo iniziato a costruire è un progetto forte e concreto”).

C’è infine anche chi dice che potrebbe essere tentato dalla corsa a sindaco di Roma: la fede giallorossa e la vicinanza agli ambienti vaticani sono tali da rendere suggestiva l’ipotesi. Ma davvero oggi sembra troppo presto per dire che non sia solo fantapolitica.

Conte

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“Auspico un governo politico che sia solido e abbia sufficiente coesione: le urgenze del Paese richiedono scelte politiche che non possono essere affidate a una squadra di tecnici”, ha affermato oggi Giuseppe Conte in merito all’esecutivo che Mario Draghi sta cercando di far nascere. Ma in che senso governo politico? E cosa voleva dire il premier dimissionario quando ha utilizzato insistentemente questa espressione?

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