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“Le sto dicendo: di fronte ad una parte, pur minoritaria, della magistratura che agisce, chiaramente, con finalità politiche non resta che una civile protesta popolare. Oppure, qualcuno vorrebbe impedire anche questa?”.

Così Giorgia Meloni nell’intervista ad Alessandro De Angelis per Huffington Post, intervista che fornisce il punto di vista della figura politica italiana per molti versi più interessante dell’ultimo anno, diciamo dalle elezioni europee del 2019 in poi (anche Giuseppe Conte è molto interessante, ma non è questa la sede in cui parlarne).

Nel corso dell’intervista la leader di Fratelli d’Italia squaderna con abilità tutti i temi che le sono cari, sostenendo con vigore un’idea di Europa basata su nazioni forti e indipendenti, affermando la necessità di giungere quanto prima ad elezioni in costanza di un Parlamento a suo dire “delegittimato”, ribadendo con energia che non ci sono divisioni a destra ma c’è una sana competizione per la leadership, giocata sulla quantità di voti raccolti.

Si potrebbe dire tutto bene dunque (dal punto di vista della Meloni), ma le cose non stanno così, poiché la realtà mostra un quadro assai più complesso che proprio la più dinamica figura della destra italiana farebbe bene a tenere presente.

Torniamo al punto di partenza, cioè la manifestazione di Catania (Meloni presente) di sostegno a Matteo Salvini imputato al processo per il caso della nave Gregoretti.

E torniamo alle parole della Meloni con cui si apre questo scritto: parole ineccepibili sotto il profilo logico ma politicamente fragilissime, ai limiti dell’inconsistenza.

Cerco di spiegarmi, ricorrendo al calendario, alleato essenziale per questo (tentativo di) ragionamento.

L’anno prossimo (2021) sarà il decennale della caduta del quarto governo Berlusconi, l’ultimo esecutivo di destra nella storia recente d’Italia.

Quel governo cadde per le polemiche sul Bunga Bunga, per le iniziative giudiziarie contro il Cavaliere ma anche (o forse soprattutto) per l’opposizione dell’Europa (Francia e Germania in testa) e per una frattura interna che fece vacillare la consistenza numerica della maggioranza (“che fai, mi cacci?” di Gianfranco Fini, tanto per capirci).

Contrasto con l’Europa, iniziative giudiziarie, divergenti strategie in Parlamento: temi che pesarono enormemente allora (fino a buttare fuori da Palazzo Chigi Berlusconi per poi votarne persino l’espulsione dal Senato), temi che sono tutti lì ancora oggi, per molti versi aggravati.

Cominciamo dall’Europa, dove proprio la Meloni ha appena ottenuto il prestigioso riconoscimento di guida del gruppo conservatore.

Ebbene qui la destra italiana è messa molto peggio di dieci anni fa, perché nel Ppe c’è solo Forza Italia (ormai infinitamente più debole di allora) mentre il soggetto più forte, cioè la Lega di Salvini, cammina a braccetto con tutti gli ultra-sovranisti (francesi, tedeschi, austriaci, spagnoli) che però sono fuori dai giochi che contano sia nel loro Paese che a livello comunitario.

Poi ci sono le vicende giudiziarie, che tanto hanno pesato sull’avventura politica del Cav ma che rischiano (per ragioni profondamente diverse) di pesare anche in quella di Salvini.

Vorrei essere chiaro su questo punto: io ho profonde riserve sul processo che si apre a Catania, perché non vedo come si possa separare la responsabilità del ministro dell’Interno da quella dell’intero governo in materia d’immigrazione.

Registro però che l’azione giudiziaria è stata avviata e il Parlamento l’ha autorizzata, mettendo così nero su bianco l’enorme debolezza istituzionale della destra italiana (che a sinistra si goda di tutto ciò possiamo darlo per scontato).

Infine c’è un tema di compattezza politica, perché se è vero che nelle regioni Salvini, Meloni e Berlusconi vanno d’amore e d’accordo (non è proprio così, ma facciamo finta di crederlo) a livello nazionale in questi due anni abbiamo visto di tutto, compresa la Lega che fa un governo con il M5S e Forza Italia che sembra più un sostegno al Conte bis che un partito d’opposizione.

Quindi (e la Meloni lo sa bene) le cose a destra sono tutt’altro che sistemate anche sotto il profilo squisitamente politico.

Il succo del discorso è quindi semplice: la destra italiana è lontana anni luce da una condizione di reale capacità di governare il sistema.

Per capirlo basta guardare alla sequenza dei presidenti della Repubblica da 1994 a oggi: Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella.

Quattro su quattro del Pd (non se ne abbia a male Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro del governo D’Alema), con gli altri che non hanno quasi toccato palla.

È la prova certa di una destra capace di prendere tanti voti ma del tutto incapace di gestire le complessità del sistema.

E così Salvini finisce sotto processo, come un Berlusconi qualsiasi.

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