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Le scene dell’assalto al Campidoglio americano evocano immagini più adatte ad altre latitudini rispetto a quella del Paese universalmente accreditato come flagship democracy. Tralasciando il perché sia accaduto un evento così sconcertante, e dunque sorvolando sulle conseguenze politiche dell’avere innescato una protesta violenta, vale la pena di fare qualche considerazione sul “come” è stata gestita l’emergenza di ordine pubblico da una prospettiva italiana. A posteriori, si è visto che la violenza dei facinorosi si è affievolita dopo appena quattro ore e alla fine l’ordine è stato ristabilito senza troppi problemi. A parte la enorme gravità simbolica dell’evento, non c’è stato un reale pericolo di colpo di stato. Certo, nell’immediatezza dei fatti non era facile — o possibile — fare considerazioni di questo tipo non essendoci abbastanza informazioni sul “prima” e sul “durante”. Non stupisce, dunque, che le critiche rivolte alla US Capitol Police e al Department of Homeland Security hanno riguardato essenzialmente l’incapacità di prendere sul serio una manifestazione di estremisti di destra e la scarsa preparazione degli operatori. In parte, si tratta di un giudizio eccessivamente duro perché se a quel livello di tensione fosse stata utilizzata la forza, magari con lo spiegamento dell’esercito, la manifestazione sarebbe degenerata in una carneficina dalle conseguenze realmente imprevedibili.

Tuttavia, analizzando l’accaduto da una prospettiva più ampia e considerando anche solo le esperienze recenti delle manifestazioni innescate dal caso George Floyd è abbastanza evidente che ad avere evidenziato problemi è proprio la filosofia americana della gestione dell’ordine pubblico piuttosto che le criticità di situazioni contingenti.

L’Italia ha una lunga tradizione ed esperienza sull’argomento, maturata durante gli anni tragici del terrorismo, delle grandi manifestazioni di piazza e delle guerriglie urbane che si scatenano da anni in Val di Susa e settimanalmente a ridosso e dentro gli stadi.

Alle attività più immediatamente percepibili affidate al Reparto mobile della Polizia di Stato e ai reparti specializzati dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza (tutti qualificati come operatori di pubblica sicurezza e sotto il comando del Questore) corrisponde un’attività informativa gestita dalla Divisione investigazioni generali e operazioni speciali. Il personale è formato in modo standardizzato all’adozione di tecniche operative definite a livello centrale dal ministero dell’Interno non a “picchiare” indiscriminatamente ma a operare in modo chirurgico. La prevenzione di polizia è gestita tramite il controllo del territorio. Ma, soprattutto, gli assembramenti pubblici — siano essi organizzati ufficialmente, “tollerati” o spontanei — non vengono mai sottovalutati.

Aspetti tecnici a parte, tuttavia, l’efficacia del sistema italiano di gestione dell’ordine pubblico deriva anche dal fatto che, per scelta politica, esso è affidato all’esecutivo — e dunque all’autorità civile — senza la necessità di proclamare uno “stato di emergenza”. Il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza prevede infatti che l’impiego delle forze armate è possibile solo se il ministro dell’Interno dichiara lo stato di pericolo pubblico. È un particolare da non sottovalutare perché la scelta di non coinvolgere direttamente gli apparati militari nella repressione di rivolte civili riduce il rischio di golpe o comunque di derive antidemocratiche giustificate dallo “stato di emergenza”. Non serve evocare il Discorso del bivacco tenuto da Benito Mussolini nel il 16 novembre 1922 per comprendere quanto l’attuale assetto organizzativo italiano sia sufficiente a tutelare la Repubblica, almeno fino a quando le Istituzioni “tengono”, e paradossalmente proprio grazie a un’impostazione nata in un’epoca autoritaria.

Questo modello organizzativo — al netto di eccezioni ingiustificabili come per esempio quelle del G8 di Genova — ha dimostrato la sua efficacia e ben difficilmente, salvo il caso di una guerra civile, fatti come quelli del Campidoglio americano si sarebbero verificati in Italia.

Il tema che rimane sullo sfondo, ma che invece diventa centrale, è il ruolo delle piattaforme di social networking e di instant messaging nella causazione delle proteste. Il “mezzo” sarà anche neutro, ma è un dato di fatto che a partire dalla diffusione di messaggi ideologici per arrivare all’organizzazione di un evento e al coordinamento delle sue fasi esecutive, le piattaforme tecnologiche di comunicazione si sono rivelate (negativamente) fondamentali. Questo implica che non è più rinunciabile il confrontarsi con il paradosso della tolleranza formulato da Karl Popper, ne La società aperta e i suoi nemici secondo il quale “estendere illimitatamente la tolleranza fino agli intolleranti, non essere pronti a difendere una società tollerante dall’aggressione di chi non lo è provocherà la distruzione dei tolleranti e la scomparsa della tolleranza”.

Popper scriveva queste parole nel 1945, e già all’epoca una tesi del genere implicava il rischio di limitare pericolosamente il diritto di dissentire e di manifestare. Ma se all’epoca quella di Popper poteva essere considerata una provocazione culturale perché i tempi e i modi per la costituzione di masse critiche di proteste erano molto più dilatati, oggi non è più così.

Come insegnano flash-mob e altre forme di protesta in tempo reale, il disordine può scaturire ovunque e in qualsiasi momento. Il tema diventa dunque definire un limite alla prevenzione di pubblica sicurezza che tenga presente il rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti.

Probabilmente non esiste una soluzione strutturale, ma si dovranno affrontare le situazioni caso per caso. Di certo, è meglio farlo nell’ambito di un ordine pubblico orientato costituzionalmente, piuttosto che in una gestione del disordine che, pavlovianamente, si traduce nel reagire alla forza con la forza.

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