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Non c’è dimostrazione plastica più convincente della nuova Guerra Fredda fra Cina e Usa della battaglia europea per la rete 5G. “La biforcazione del mercato fra Cina e Occidente è quasi completa”, spiega Hosuk Lee-Makiyama, economista, direttore dell’Ecipe (European Centre for International Political Economy), un’autorità nella diplomazia commerciale e nell’economia digitale.

Il professore parla da una videoconferenza organizzata dalla cinese Huawei con un gruppo di giornalisti esteri. È solo l’ultimo di una lunga serie di briefing online che il colosso della telefonia mobile di Shenzen ha messo in piedi negli ultimi mesi per rispondere alle accuse mosse dall’intelligence e dal governo americano.

Spionaggio industriale tramite l’installazione di backdoors, dumping, dipendenza dal Partito comunista cinese. Una ad una sono rispedite al mittente dall’azienda fondata dall’ex ufficiale dell’Esercito di Liberazione popolare Ren Zhengfei, oggi seconda produttrice di cellulari al mondo dopo la coreana Samsung, un gradino sopra la Apple.

Il danno di immagine, e di cassa, della campagna diplomatica di Washington Dc per convincere i Paesi alleati, a cominciare dagli alleati Nato, a non affidare la banda ultralarga ad aziende cinesi, si è già fatto sentire. La crisi del Covid-19 e il nuovo capitolo dello scontro Cina-Usa che ne è sorto rischiano di aumentare la conflittualità fra competitors. L’Europa è il campo di battaglia prescelto, Bruxelles la meta di continui pellegrinaggi di gruppi di pressione dell’una e l’altra sponda per cambiare le sorti della partita.

Presto per fare un bilancio del braccio di ferro. Il 5G, in Europa, è ancora alla fase sperimentale. Un ritardo, spiega Lee-Makiyama, che “non c’entra con il Covid-19, e ha poco a che vedere con i problemi della sicurezza, ma si deve alla bassa domanda”. In parte è dovuto ai consumatori europei, “che, a quanto pare, sono meno interessati a vedere Netflix in Hd di quelli americani o cinesi”, scherza l’esperto. In parte agli investitori, che “guardano solo ai loro dividendi e non hanno interesse alla realizzazione rapida della rete”.

Non aiuta la normativa degli Stati membri Ue. “Ho saputo che alcuni Paesi europei hanno bisogno di sei mesi per autorizzare l’equipaggiamento. Sei mesi, in questo mondo, sono sei anni”, dice il professore alla conferenza di Huawei, con una frecciatina che potrebbe ben essere rivolta all’Italia, visto che il Perimetro di sicurezza cibernetica nazionale del “decreto cyber” (che sconta non pochi ritardi) richiede proprio sei mesi per l’invio a Palazzo Chigi da parte degli operatori degli elenchi delle reti, dei servizi informativi e informatici considerati sensibili.

Il leit-motiv della video-conferenza del gigante cinese richiama lo stesso motto con cui Bruxelles giustificò le politiche di austerity ai tempi della crisi del debito sovrano: Tina (there is no alternative). Non c’è alternativa alla Cina per l’Europa che, dice il professore, “è molto più export-dipendente della Cina” ed è “sproporzionatamente esposta ai mercati cinesi”. Non è obbligatorio per l’Europa prendere posizione nel confronto fra Washington e Pechino, perché, a differenza dei rapporti fra Cina e Usa, quelli fra Cina e Ue “non sono un gioco a somma zero”. Perfino Finlandia e Svezia, i Paesi che ospitano i due campioni del 5G europeo (e occidentale), Nokia ed Ericsson, sono geopoliticamente “non allineati”.

Il Vecchio Continente è l’ago della bilancia per decidere chi avrà in mano le chiavi della rete di ultima generazione. Alcuni Stati europei più di altri possono diventare la chiave di volta per il successo della campagna cinese sul 5G, e, di conseguenza, il rallentamento di quella americana. Su tutti il Regno Unito di Boris Johnson, che a gennaio ha vietato la presenza delle cinesi Huawei e Zte nella parte “core” della rete 5G e introdotto un limite del 35% nella parte “non-core”. La scelta di evitare una messa al bando tout-court ha fatto infuriare l’alleato statunitense e creato una frattura nella politica d’Oltremanica, che ora comincia ad avere ripensamenti.

C’è fibrillazione per il prossimo report dell’Huawei Cyber security evaluation centre, l’organismo ad hoc del governo britannico che dal 2010 certifica la sicurezza dell’equipaggiamento Huawei. Lo scorso anno il centro aveva concluso di poter dare solo “un’assicurazione limitata che i rischi di lungo periodo saranno gestiti per l’equipaggiamento di Huawei attualmente usato nel Regno Unito”. “Evito di fare predizioni – commenta oggi in vista del sesto rapporto Andy Purdy, Chief Security Officer di Huawei Usa – i rapporti fra Huawei e Regno Unito sono consolidati, così come con i consumatori inglesi, abbiamo lavorato duramente per l’evoluzione del software e per costruire resilienza e sicurezza, così come per assicurare la trasparenza”.

Sul caso inglese è ancora più tranchant Johannes Drooghaag, consulente per il business di Huawei: “Dalle ricerche sulle vulnerabilità sono emersi trend assolutamente uguali a quelli degli altri fornitori, dietro le accuse non ci sono fatti, forse riguardano più i rapporti fra Cina e Regno Unito”.

“Huawei non abbandonerà il mercato – chiosa – se sarà tagliata fuori dallo sviluppo tech e dall’industria, ne nascerà una minaccia significativa per la sicurezza cibernetica”.

Rimane il timore che nel mercato lo spazio per Huawei si faccia più stretto. Gli occhi sono puntati sulla finlandese Nokia, e sulle voci che si rincorrono nelle ultime settimane su un possibile takeover, o un M&A dell’azienda. L’ipotesi era stata ventilata con un certo interesse dalla Casa Bianca prima che scoppiasse la crisi del Covid-19.

Alla porta potrebbe esserci un campione americano come Qualcomm, che lavora con Nokia da ben 14 anni e, secondo Forbes, ha una riserva di cassa di ben 4 miliardi di dollari. Nel quartier generale finlandese vige il gelo più assoluto. Da Huawei un commento caustico. “Non credo che Nokia abbia queste intenzioni – dice Purdy – la competizione è fondamentale, ed è la cosa migliore per i nostri clienti”.

Obiettivo Europa (e Uk). La strategia per il 5G di Huawei (spiegata da Huawei)

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