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Se davvero l’Europa è nata per “curare le anime”, come ha affermato il filosofo Patočka, oggi è chiamata a prendersi “cura” del lavoro che manca, per ridare dignità alle persone. “L’individuo si fa persona quando […] fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro” continua a ricordare papa Francesco. Il mercato del lavoro è minacciato da tre grandi fattori: la denatalità, la deriva assistenzialista e l’emigrazione dei talenti. Le cause che stanno bloccando sono note: l’elevato costo del lavoro, il peso della burocrazia, l’inefficienza di parte della pubblica amministrazione che blocca procedure e competenze, i tempi lunghi della giustizia, la sovrapproduzione legislativa, l’assenza di infrastrutture, l’eccessiva corruzione, la presenza delle mafie sui territori, il divario tra Nord e Sud che fanno dell’Italia un paese a due velocità.

In questo scenario quali soluzioni possono offrire al mondo del lavoro le città e l’Europa? Partiamo da un dato: il tasso di natalità italiana è il più basso in Europa (8,2 nati su 1.000 abitanti). La denatalità ha colpito soprattutto il Sud dell’Italia, il tradizionale serbatoio di “braccia silenziose” e di “menti pensanti” per il Paese.

Negli ultimi 15 anni, come documenta il rapporto Svimez del 2019, la popolazione del Meridione è diminuita di 393 mila unità, mentre è cresciuta la popolazione anziana italiana che ha un’aspettativa di vita di 80,3 anni per gli uomini, la più alta in Europa, e di 84,9 per le donne, la terza, dopo Francia e Spagna. Tra 20 anni, gli over 75 costituiranno il 30% dell’intera popolazione. Quali conseguenze avrà il mercato del lavoro?

Anzitutto gli effetti della denatalità hanno determinato un calo dell’offerta di manodopera, un arresto del mercato del lavoro, una diminuzione della domanda di consumo e, in definitiva, una frenata dell’economia intera. Se mancano neonati, mancheranno lavoratori, di conseguenza diminuirà la domanda di consumo. Anzi, questa dipenderà dalle persone anziane che però non saranno capaci di sorreggere l’economia del Paese, il loro consumo di beni sarà ridotto, diminuiranno i mutui e gli spostamenti, la domanda di servizi si limiterà all’assistenza personale. In secondo luogo occorre rilanciare il dibattito per arginare la deriva assistenzialistica, conseguenza di una visione politica priva di respiro. Per il Papa, “l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti, non ci sarà dignità per tutti”.

Come è stato scritto giustamente, Francesco sostiene che “l’istante della prestazione e quello della sua retribuzione devono essere inquadrati in modo da consentire al lavoratore di proiettare la propria esperienza professionale (il suo ‘capitale umano’) sull’orizzonte della propria vita”. Trascinare il Paese sulle rive dell’assistenza universale e in particolare sul quelle del reddito di cittadinanza significa ristagnare ancor di più la domanda di consumo; contrarre il reddito da lavoro a causa della scarsa occupazione e dal sussidio garantito.

È ingenuo pensare che il lavoro umano venga completamente sostituito dai robot. Gli effetti di questa nuova tendenza culturale, oltre a ledere la libertà e la dignità personale, aumentano la diseguaglianza sociale e la mancanza di redistribuzione della ricchezza per la non progressività delle misure di assistenza universale. Si romperebbe il “patto intergenerazionale” in cui i soggetti attivi nel mondo del lavoro si fanno carico di quelli che ne sono fuoriusciti posto che il sussidio assistenziale si sostituisce al reddito da lavoro, con conseguenze gravi anche sul piano della sostenibilità del nostro sistema previdenziale.

Infine, l’emigrazione dei talenti. Secondo l’Istat nel 2016 i migranti italiani con più di 24 anni, sono stati circa 54 mila, nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30% è in possesso di un titolo universitario o post-universitario, si tratta in larga misura di giovani manager, ricercatori, imprenditori. Il prezzo più grande lo paga il Sud Italia: tra il 2002 e il 2017 gli emigrati sono stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017, di questi 66.557 sono giovani dei quali il 33% è laureato. Non è difficile comprendere gli effetti di questa emorragia sociale: da una parte lo spopolamento dei territori e il ristagno delle economie locali, dall’altra sacrificare molti cervelli al mercato di lavoro interno.

Occorre porci un’altra domanda: può l’Europa aiutare il mercato del lavoro italiano? La risposta è positiva se si investe sulle politiche – incentivando le nascite e conciliando i tempi di vita e di lavoro, soprattutto femminile – se si crea lavoro nelle aeree del Paese, come il Sud Italia, per dare la possibilità ai territori di ripensare al loro futuro. In tale prospettiva, l’Europa potrebbe agire attraverso una cabina di regia in stretta cooperazione con il nostro Paese. Ai fini della politica di conciliazione dei tempi e di vita al lavoro, il Pilastro Sociale Europeo del 17 novembre 2017, da cui nasce la direttiva 1158 dell’agosto 2019, è un primo positivo passo. L’obiettivo deve essere quello di rafforzare la flessibilità lavorativa, soprattutto in favore delle donne per permettere di assistere i figli al termine del periodo di assenza per la gravidanza e del congedo di maternità.

È per questo che sono lungimiranti le scelte politiche che rafforzeranno il diritto allo smart working e al part-time, garantiranno gli asili nido, aiuteranno un welfare aziendale personalizzato.

Per l'Europa c'è una sola missione, il lavoro. Scrive l’avv. Cafiero

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