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I rapporti tra Italia e Cina dopo il mancato rinnovo del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della Seta, sono nel nome di Marco Polo, che nel suo libro Il Milione raccontò i suoi viaggi nella Cina del XIII secolo da cittadino della Repubblica di Venezia alla corte di Kublai Khan.

Nel corso della sua missione a Pechino, Giorgia Meloni ha voluto evitare qualsiasi riferimento alla Belt and Road Initiative, ovvero il progetto lanciato dal governo cinese nel 2013 a cui l’Italia aderì nel 2019 con il governo gialloverde di Giuseppe Conte. Così, anche la comunicazione del Partito comunista cinese ha scelto di utilizzare l’espressione “antica Via della Seta” per descrivere il nuovo quadro delle relazioni bilaterali, all’insegna del partenariato strategico inaugurato nel 2004, raccontando l’incontro tra il leader Xi Jinping e la presidente del Consiglio.

Vi ha fatto riferimento anche la stessa Meloni, all’inaugurazione della mostra “Viaggio di Conoscenze. Il Milione di Marco Polo e la sua eredità tra Oriente e Occidente” presso il Millennium Art Museum di Pechino. “Quello di Marco Polo, come recita il nome della mostra, non è stato un viaggio solo fisico lungo la Via della Seta ma di conoscenza”, ha spiegato, che ha contribuito “a modificare la percezione dell’Oriente in un periodo in cui la distanza era tale da sembrare incolmabile. Il Milione è stato ben più di un diario di viaggio, è stato una finestra verso una cultura che allora in pochi in Europa potevano immaginare, ha tracciato una strada che dall’Italia porta all’Oriente. A volte il tragitto è più agevole, a volte è sembrato più in salita ma quella strada è sempre stata percorribile. Dobbiamo continuare a tenere aperta quella strada, per far transitare le relazioni economiche e culturali alla base della nostra cooperazione. Difendere quel che siamo è lo strumento più efficace per comprendere l’altro”.

Anche Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, dovrebbe compiere a ottobre un viaggio lungo la Via della Seta per suggellare, dopo aver accolto Xi nel 2019 in occasione del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative, la nuova fase dei rapporti bilaterali. il suo viaggio era inizialmente fissato per l’inizio dell’anno, proprio coincidenza dei 700 anni della morte di Marco Polo.

È una figura, quella di Marco Polo, a cui in questi anni è sembrato tenesse più il partito-stato cinese che l’Italia. E non è un caso, se si pensa al mercante, a colui che, grazie al titolo di messere poteva vantare ottimi rapporti con l’imperatore diventando un vero e proprio informatore per il doge, come a un “viaggiatore legale”. Probabilmente il primo nella storia a utilizzare il suo lavoro “civile” come naturale copertura per l’attività di spia.

Le famiglie di mercanti veneziani “erano obbligate a tenere un diario durante i loro viaggi alla scoperta di nuovi mercati che, al rientro, doveva essere depositato in Cancelleria”, come ha scritto Alberto Manenti, già direttore dell’Aise, nella prefazione al libro China Intelligence(Rubbettino) del professor Antonio Teti. “Si comportavano, dunque, alla stregua di veri e propri 007 che raggiungevano luoghi remoti, talmente ignoti che sovente erano i primi a disegnarne le mappe, riportando nei loro scritti tutto ciò che apprendevano durante il viaggio”, ha spiegato ancora. “Uomini fuori dal comune che, con la naturale copertura della loro professione, il commercio, fornivano alla Serenissima preziosissime informazioni su luoghi, popoli e culture che potevano rappresentare minacce da cui difendersi o opportunità da sfruttare”, ha scritto ancora.

Una tradizione diventata poi ben nota all’intelligence inglese e britannica: uomini d’affari, commercianti, accademici ma non solo, che operano all’estero informando poi, al rientro in patria, i sevizi d’intelligence su ciò che hanno visto e sentito.

Settecento anni dopo la sua morte, Marco Polo è diventato in un certo senso un simbolo della Cina. Per spiegare la filosofia cinese di ricerca e acquisizione di informazioni il professor Teti, nel suo volume, cita Paul D. Moore, ex analista dell’Fbi, e i suoi “mille granelli di sabbia”: “Se una spiaggia fosse un obiettivo, i russi manderebbero un sottomarino, gli uomini rana sbarcherebbero a riva nel buio della notte, raccoglierebbero diversi secchi di sabbia e li riporterebbero a Mosca. Gli Stati Uniti invierebbero satelliti e produrrebbero montagne di dati. I cinesi manderebbero un migliaio di turisti, ciascuno incaricato di raccogliere un solo granello di sabbia. Quando tornerebbero in Cina, verrebbe chiesto loro di scrollarsi di dosso gli asciugamani. E finirebbero per saperne di più sulla sabbia più di chiunque altro”.

Un approccio che può contare in primo luogo sulle diaspore all’estero e lo spirito nazionalistico. Ma anche sulle imprese statali, in particolare quelle tecnologiche che dominano settori strategici come il 5G e che il governo può obbligare alla condivisione di informazioni grazie a due leggi che impongono la collaborazione di aziende e cittadini per scopi – vagamente definiti – di sicurezza nazionale.

Come Marco Polo è diventato il simbolo dello spionaggio cinese

Il rapporto tra Roma e Pechino post Belt and Road Initiative è all’insegna dell’antica Via della Seta e nel nome del mercante che spiava per conto del doge durante i suoi viaggi in Oriente. Oggi è Xi a ispirarsi a lui per raccogliere informazioni con cittadini e aziende sparsi nel mondo

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