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Il 25 settembre, durante lo svolgimento (in diretta televisiva) della riunione del National Security Council da lui stesso presieduta, il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha annunciato una revisione della dottrina nucleare nazionale. Putin ha affermato che un attacco contro la Russia da parte di una potenza non nucleare con la “partecipazione o il sostegno di una potenza nucleare” sarebbe visto come un “attacco congiunto alla Federazione Russa”, sottolineando che la Russia potrebbe usare le armi nucleari anche in risposta a un attacco convenzionale, qualora rappresenti una “minaccia critica alla nostra sovranità”.

Sulla carta, nulla di troppo diverso, se non nella scelta dei lemmi, della formula “In risposta all’uso di armi nucleari e di altri tipi di armi di distruzione di massa contro di essa e/o i suoi alleati, così come in caso di aggressione contro la Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali quando l’esistenza stessa dello Stato è in pericolo”, presente nel documento noto come “Principi di base della politica statale sulla deterrenza nucleare” firmato da Putin nel 2020, e considerato come la dottrina ufficiale della Federazione Russa in materia di nucleare.

In realtà, alcune differenze ci sono. Putin ha sottolineato che la dottrina riveduta definisce in modo più dettagliato le condizioni dietro al ricorso allo strumento nucleare. “Prenderemo in considerazione questa possibilità quando riceveremo informazioni affidabili su un lancio massiccio di mezzi di attacco aereo e spaziale e sul loro attraversamento del nostro confine di Stato”, ha specificato Putin, citando “aerei strategici e tattici, missili da crociera, droni, veicoli ipersonici e altri veicoli volanti”. Allargando le maglie rispetto alla versione attuale del documento, la quale afferma che la Russia userebbe il suo arsenale nucleare se “ricevesse informazioni affidabili sul lancio di missili balistici diretti verso il territorio della Russia o dei suoi alleati”. Inoltre, Putin ha affermato che nel testo aggiornato si considererà un attacco alla Bielorussia come un attacco alla Federazione Russa.

Ma perché è stato necessario dare tale risonanza mediatica a questi cambiamenti, preannunciati durante una riunione in diretta del National Security Council?

La risposta a quella domanda l’ha fornita un altro esponente di spicco della nomenklatura della Federazione Russa, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, secondo cui la revisione della dottrina nucleare “dovrebbe essere considerato un segnale preciso” per l’Occidente, e in particolare che “segnale di avvertimento a questi Paesi sulle conseguenze in caso di loro coinvolgimento in un attacco al nostro Paese con vari mezzi, non necessariamente nucleari”. Considerando le tempistiche, è facile capire l’antifona: il Cremlino sta nuovamente ricorrendo alla retorica nucleare per cercare di influenzare il processo decisionale (compelling, se si vuole ricorrere a termini della dottrina delle relazioni internazionali) della comunità euroatlantica, nello specifico riguardo al dare il via libera all’Ucraina nell’impiego dei sistemi d’arma di manifattura occidentale per colpire bersagli siti in profondità oltre il confine con la Russia.

Non è la prima volta, dall’inizio del conflitto in Ucraina, che Mosca ricorre a questo stratagemma. Anzi, lo sfruttare la propria retorica nucleare è stata una costante da parte di Putin e del suo circolo ristretto. Fino ad ora con risultati limitati, e anzi rischiando di svalutare l’importanza data dall’Occidente a questa retorica, sviluppo pregno di conseguenze potenzialmente gravissime.

“A prescindere dal fatto che si pensi o meno che si tratti di un bluff, non è mai positivo quando una grande potenza nucleare allenta le condizioni per l’uso del nucleare nella sua politica dichiarativa”, per dirla con le parole di Samuel Charap, scienziato politico senior della Rand.

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