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Ha un notevole successo il saggio “Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa”, (La Nave di Teseo, 2018) di Maurizio Molinari, direttore de La Stampa e prolifico scrittore su alcune tematiche, in particolare come l’atlantismo (ha studiato negli Stati Uniti ed è stato a lungo corrispondente da New York). Il saggio si legge agevolmente ed offre varie spiegazioni del populismo all’italiana, di cui espone le determinanti sia economiche sia politiche. È più convincente sul terreno politico (dove sottolinea la crisi profonda della forma “partito” quale sviluppatasi nel Novecento), che su quello economico dove mette in risalto le crescenti diseguaglianze in seguito alla crisi iniziata nel 2008 (ed alle politiche di “austerità”) come elemento principale dell’ascesa del populismo all’italiana.

È un tema che va sviscerato più a fondo di quanto non faccia Molinari. Ad esempio, Lubos Pastor e Pietro Veronesi, ambedue del Booth School of Business dell’Università di Chicago, in un lavoro recente (Inequality aversion, popolism and the backlash against globalization, Cepr discussion Paper Dp 1307) elaborano un modello in cui il populismo emerge in un’economia in crescita in modo endogeno. Non sono solo coloro nei piani bassi della scala sociale a stigmatizzare gli altri consumi delle élite dei piani alti, ma in Paesi ad alto reddito, le “fasce alte” sono coloro che votano i populisti che promettono di porre fine alla globalizzazione, considerata la minaccia principale al loro “status”. Il modello spiega, con l’avversione al rischio delle “fasce alte”, l’elezione di Trump e l’esito del referendum sulla Brexit. L’avversione al rischio è più forte dell’invidia sociale e delle diseguaglianze.

A conclusioni analoghe giunge un recente Working paper del dipartimento del Tesoro italiano firmato da Enrico D’Elia del Mef e Roberta De Santis dell’Istat (Growth divergence and income inequality in Oecd countries: The role of trade and financial openess, department of Treasury working paper No.5). Lo studio prende in esame la crescita e le ineguaglianze in 35 Paesi Ocse nel periodo 1995-2016 e tiene conto sia degli effetti di breve periodo sia di quelli a lungo termine che riguardano le disparità. La conclusione è che l’apertura al commercio ed alla finanza internazionale riducono le differenze tra tassi di crescita tra Paesi ma non le ineguaglianze all’interno dei vari Paesi, specialmente nei Paesi ad alto reddito medio. Questa è un’altra spiegazione della crescita del populismo in Paesi come Usa, Italia, Francia e Germania. È anche una determinante di quella che nella copertina dell’ultimo fascicolo di The Economist viene chiamata la Slowbalisation, ossia il rallentamento della globalizzazione.

Unitamente alle determinanti puramente politologiche (esaminate in “La Democrazia del Narcisismo” di Giovanni Orsina, Marsilio, 2018), questi aspetti, spesso ignorati dalla stampa ed anche dalla saggistica, spiegano meglio del “viaggio” di Molinari il successo del populismo all’italiana. Sarà un successo duraturo?

È interessante uno studio freschissimo del Fondo monetario internazionale Populism and Civic Society – Imf Working Paper No 18/254, di cui sono autori Tito Boeri (Università Bocconi), Prachi Mishra (Goldman Sachs), e due economisti del Fondo, Chris Papageorgiou e Antonio Spilimbergo. Dato che i populisti sostengono di essere gli unici rappresentanti legittimi del popolo, ci vuol dire che non c’è spazio per i corpi intermedi della società civile? È un interrogativo importante perché da Tocqueville in poi le associazioni e i corpi intermedi sono considerati fattori chiave per una sana democrazia. L’analisi empirica riguarda l’Europa, che ha una lunga tradizione di associazionismo e di gruppi intermedi, e l’America Latina che ha, invece, una lunga storia di vari tipi di populismo. Lo studio dimostra che coloro che appartengono ad associazionismi e gruppi intermedi sono molto meno propensi a votare per partiti populisti.

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