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Le generazioni passate hanno sempre guardato al futuro per migliorare le proprie condizioni di vita e per garantire ai propri figli un presente migliore di quello che avevano vissuto. La nostra generazione, invece, sente meno questo stimolo, poiché la certezza che il futuro sarà migliore rispetto al presente è meno diffusa.

C’era un mondo che si preoccupava di programmare, di fare piani a lungo termine, pensava, piantava gli ulivi; oggi invece gli ulivi si piantano per avere un ritorno a quattro anni. Un tempo si piantavano gli alberi pensando alla generazione successiva; non si piantava per se stessi, ma per il futuro.

Una bellissima frase di Winston Churchill affermava che “Il politico diventa statista quando smette di pensare alle elezioni e pensa alla futura generazione”. Il lavoro deve ripartire da questo: dall’uomo, dalla sua capacità di progettare, dalla sua capacità di prevedere il futuro per le generazioni a venire.

Bisogna inoltre riportare al centro dell’attenzione la competenza, come elemento imprescindibile per la costruzione del futuro. Oggi vengono compiute spesso scelte che prescindono da essa, ma questo atteggiamento non può che essere scarsamente lungimirante e poco efficiente. Pensando alla prima diga costruita dal nostro gruppo (la diga di Legadadi), che ancora dopo cinquant’anni fornisce l’acqua ad Addis Abeba, mi rendo conto che la competenza ci ha permesso di realizzare un prodotto che ha cambiato la vita di una città, rendendole un servizio prezioso. Quello che dà soddisfazione non è vincere un contratto, ma cambiare la vita delle persone.

Chi potrebbe mai immaginare un’Italia senza Autostrada del Sole, senza ferrovia, senza l’alta velocità tra Roma e Milano? Sono servizi di cui non si può fare a meno. Nel nostro Paese in passato si è fatto molto, ma oggi non è più così. Eppure, nessun governo dovrebbe poter pensare di lasciare a casa a tempo indeterminato il milione e mezzo di persone che è stato perduto nel settore delle infrastrutture e dell’edilizia. Una ricchezza di questo tipo non può e non deve essere perduta.

Negli anni Novanta, Doha era un deserto piatto, un nulla. Nessun fabbricato, nessuna costruzione. In poco più di trent’anni è stato creato un mondo che non esisteva. In Italia si parla e si è parlato molto di Expo e del cambiamento straordinario che ha investito Milano in pochi anni, ma se paragoniamo questa trasformazione a quello che accade nel resto del mondo ci si rende conto che si tratta di qualcosa di relativamente piccolo. Eppure, lo viviamo come un fatto straordinario proprio perché siamo privi di capacità progettuale e di realizzazione.

L’Italia è serrata da un pensiero inefficace, non è capace di trasformare in realtà i propri desideri. Siamo tutti fantastici diagnostici capaci di interrogarci su quali siano i problemi delle nostra città e del nostro Paese, ma efficaci al pari di un tifoso che, l’indomani della partita persa, sa dire esattamente cosa avrebbe dovuto fare l’allenatore. Sul tema delle infrastrutture sappiamo tutti dire che cos’è che non va, ma nessuno riesce a modificarlo.

Dagli anni Novanta in poi il Paese si è ripiegato su se stesso. Non si riesce a realizzare un’infrastruttura. C’è un cantiere fra Genova e Milano avviato nel 1996 di cui ancora si discute in merito ai finanziamenti dei singoli lotti; è una situazione surreale. Nel Sud Italia manca l’acqua per sette mesi l’anno ed è inaccettabile per un Paese che tutti i giorni si autocelebra come settima potenza industriale del mondo.

Le infrastrutture potrebbero fornire un milione e mezzo di posti di lavoro; il governo dovrà necessariamente rimboccarsi le maniche e discutere di infrastrutture, dalle quali dipende direttamente la qualità delle città, dei trasporti, dell’acqua, di tutti quei servizi necessari a garantire un’alta qualità della vita alle persone.

(Articolo pubblicato sul numero 137 della rivista Formiche)

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