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Per il ministro Matteo Piantedosi solo una sommessa esortazione. Parafrasando il celebre passo dell’Inferno di Dante, riferito agli ignavi: “Non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Consigli non richiesti, data la tempestiva risposta di Palazzo Chigi, dopo la sentenza della Corte di giustizia europea: “Il centro albanese rimane aperto e sarà pienamente utilizzato”. Quindi cambia ben poco, per non dire nulla.

Le sentenze non vanno commentate, ma rispettate. Sennonché, in questo caso, spetta al governo dar loro attuazione ed, eventualmente, cambiare la procedura finora seguita se essa dovesse risultare in contrasto con le conclusioni della Corte. Vale quindi la pena entrare più nel merito di quanto stabilito dai giudici a Lussemburgo.

La sentenza si limita a fornire l’interpretazione autentica di alcune norme di legge. Il problema è capire se questo intervento ne stravolge completamente la portata. O, invece, si tratti solo di una necessaria qualificazione.

Ovviamente l’opposizione ha immediatamente sottoscritto la prima ipotesi. Governo battuto dalla Corte di giustizia. La dimostrazione di una politica fallimentare, nello scontro con i giudici, che è costata più di 800 milioni di euro: buttati sulle coste albanesi. Queste alcune perle. Mentre Giuseppe Conte incalza: “E niente, Giorgia Meloni proprio non ce la fai! Non riesci a smetterla con la vuota propaganda e i tuoi falsi vittimismi. È più forte di te. È il tuo modo di far politica, è la tua maniera per provare a mantenere il consenso. Ma questo castello di artifici quanto durerà?”. Probabilmente tanto: considerato lo stato dell’opposizione.

Ancora più duri i cespugli di Elly Schlein. Per Fratoianni “la sentenza della Corte Europea di Giustizia è un macigno sulla campagna di propaganda e di odio del governo Meloni contro migranti e giudici”. Per Bonelli: “L’intervento della Corte dimostra il fallimento della destra”. Ma chi è andato oltre è stato l’arcivescovo Gian Carlo Perego: presidente della Commissione episcopale per l’immigrazione e della fondazione Migrantes. Che non si è limitato a commentare la sentenza, ma ha portato un duro attacco al Governo, accusandolo di aver portato avanti “subdole manovre per allontanare il dramma dei migranti in fuga dai nostri occhi e dalla nostra responsabilità costituzionale”. Accuse che hanno comportato la giusta reazione di Giorgia Meloni, che ha rivendicato una totale trasparenza ed una assoluta limpidezza nel combattere le organizzazioni criminali, che organizzano il traffico di esseri umani.

Episodi che dimostrano una tensione al color bianco, destinata, in qualche modo, ad impedire una riflessione più distaccata sull’intera vicenda. Da più parti, infatti, è stato detto che i giudici vorrebbero essere loro a decidere se un Paese possa considerarsi più o meno sicuro. Interpretazione che, per la verità, non sembra corrispondere del tutto al contenuto della sentenza della Corte. Che, invece, si è limitata a fornire l’interpretazione autentica di norme esistenti. In particolare si tratta di alcuni articoli della direttiva 2013/32/Ue, posti in relazione con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Le relative novità possono così riassumersi. La definizione di un Paese come “sicuro” può essere anche fatta con atto legislativo. A questa definizione deve tuttavia corrispondere una situazione reale. Compito del giudice, in caso di ricorso dell’interessato, è anche quello di accertare che tale corrispondenza sia effettiva. Per favorire un simile accertamento lo Stato deve fornire tutti gli elementi oggettivi che sono stati posti alla base della sua decisione iniziale. Per consentire appunto, nel contraddittorio processuale, un giudizio di merito.

Fin qui c’è poco da eccepire. Un Paese considerato sicuro deve esserlo davvero. Durante il procedimento per la richiesta d’asilo è quindi plausibile che il giudice, chiamato ad emettere il verdetto, verifichi il sussistere di quella condizione. La cosa meno condivisibile è invece l’ultimo passaggio della sentenza, sempre relativo all’interpretazione autentica dell’articolo 37 della direttiva. Secondo i giudici della Corte “osta a che uno Stato membro designi come Paese di origine sicuro un Paese terzo che non soddisfi, per talune categorie di persone, le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva”.

Il linguaggio è involuto. Il precetto fin troppo generico. Che significa, infatti, “per talune categorie di persone”? Quale ne deve essere il numero. Basta discriminare una sola persona? O ne servono di più? Questa evidente indeterminatezza è figlia di un cambiamento di registro. In questo caso, infatti, si esce dal processo. Non si indaga sulle condizioni specifiche del ricorrente, per verificare se esso sia oggetto di indebite discriminazioni. Si giudica, invece, sulle caratteristiche generali del Paese di provenienza. Compito, quest’ultimo, che non spetta al giudice, ma ad altre istituzioni. Autorizzate ad operare secondo procedure interamente vincolate (come ha fatto giustamente osservare Antonio Tajani), così come definite dalla stessa direttiva (si veda in particolare lo stesso articolo 37).

Ed ecco allora spiegata l’invasione di campo. I giudici della Corte di giustizia si sono attribuiti compiti che non competono alla magistratura e che quest’ultima non sarà in grado di svolgere, non avendo a disposizione i relativi strumenti. Con il rischio di determinare un contenzioso perenne nel definire la natura del singolo Paese di provenienza. “Sicuro o non sicuro?”: questo il problema. Non proprio il massimo per ridare al diritto quella certezza che pure è necessaria ed indispensabile.

Paese sicuro o non sicuro? La sentenza della Corte di Giustizia Ue sui migranti letta da Polillo

I giudici della Corte di giustizia si sono attribuiti compiti che non competono alla magistratura e che quest’ultima non sarà in grado di svolgere, non avendo a disposizione i relativi strumenti. Con il rischio di determinare un contenzioso perenne nel definire la natura del singolo Paese di provenienza. “Sicuro o non sicuro?”: questo il problema. L’analisi di Gianfranco Polillo

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