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Domani in Canada, a Charlevoix (Quebec), inizierà il G7: i capi di stato e di governo di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Italia e Giappone, saranno ospiti dell’altra grande economia mondiale (quella canadese appunto). Il vertice si preannuncia tra i più tesi di sempre per via di spaccature interne tra le nazioni partecipanti: il rischio, secondo gli analisti, è che per la prima volta non venga nemmeno adottato e diffuso uno dei comunicati congiunti, dai toni politici aulici, che di solito fanno segnare l’allineamento tra i partner, fa notare Politico (ma attenzione: già la dichiarazione congiunta del G20 di Amburgo utilizzava un linguaggio che faceva comprendere le sostanziali divisioni dietro ai riflettori).

Vari i problemi. Per esempio c’è la questione commerciale, che la scorsa settimana ha minato il G7 finanziario, anche quello chiuso senza dichiarazioni comuni (durante le conferenze stampa separate dei ministri economici presenti, il francese Bruno Le Maire ne ha approfittato per definire il vertice un “G6+1”, “teso e difficile”, inquadrando la sostanziale divisione tra gli Stati Uniti e gli altri). I ministri degli altri sei paesi hanno chiesto al collega del Tesoro americano, Steven Mnuchin, di portare alla Casa Bianca la loro “preoccupazione unanime e delusione”: “È evidente che abbiamo un problema sugli accordi multilaterali, ci aspettano discussioni dure”, è stato il commento da Berlino di Angela Merkel.

Gli alleati sono in cagnesco con gli Stati Uniti: la decisione americana di alzare dazi su acciaio e alluminio europei ha comportato le contromisure Ue, con Bruxelles pronta ad agire di conseguenza contro prodotti americani. Linea simile intrapresa da Messico e Canada, altri due dei paesi finiti nella rete fitta delle tariffazioni aggiunte da Washington su steel&aluminum forse con l’intento di creare pressioni sul Nafta, accordo che secondo la Casa bianca va sostituito con intese da negoziare in via bilaterale tra le varie parti (e qui uno dei punto profondi: il bilateralismo trumpiano contro il multilateralismo del G7 e di certi accordi).

Il Messico ha già intrapreso provvedimenti di risposta, andando a colpire importazioni per un valore di circa 3 miliardi di dollari: provvedimenti che – ha detto il governo messicano – sono stati studiati per colpire alcuni settori dell’economia statunitense connessi a stati legati a importanti rappresentanti del Partito Repubblicano, che è quello del presidente Donald Trump.

Allo stesso modo, il governo canadese ha fatto sapere che non cederà di un centimetro, tenendo una posizione “coerente e chiara”, annunciando pesanti misure di rappresaglia per quello che Justin Trudeau, convinto rappresentante del multilateralismo, ha chiamato “un affronto” – c’è stata anche una telefonata tra Trump e Trudeau, e pare (l’esclusiva è della CNN) che nel corso della conversazione, mentre il canadese si lamentava che la scelta “per ragioni di sicurezza nazionale” usata da Trump era ingiusta, il Prez gli abbia risposto qualcosa come: “Ma non siete stati voi a bruciare la Casa Bianca?”; era un’uscita che avrebbe dovuto essere ironica, forse poco gradevole, e comunque basata su un errore storiografico di Trump (furono gli inglesi a bruciare nel 1812).

Anche il Giappone è in difficoltà: Washington è l’alleato globale di riferimento per Tokyo, che però ultimamente nutre un po’ d’imbarazzo perché l’amministrazione Trump, spinta dal presidente, ha scelto una via negoziale con la Corea del Nord, preannunciando la possibilità di allentamento delle sanzioni, che per i giapponesi è invece un dossier da trattare seguendo la linea della “massima pressione”, sia per combattere le pretese atomiche di Pyongyang (i giapponesi non si fidano dei propositi nordcoreani sulla denuclearizzazione), sia per contrastare la Cina.

Poi c’è la questione dell’Iran: Regno Unito, Francia e Germania hanno preso la decisione americana di uscire dal deal atomico come un tradimento, e stanno cercando di salvare il salvabile, con gli ayatollah che ritornano a toni aggressivi sull’arricchimento, gli israeliani che pressano e gli accordi già presi dalle aziende europee da salvare dalle sanzioni secondarie che gli Stati Uniti stanno reintroducendo.

Questo contesto delicato farà da scenario alla prima uscita ufficiale del presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte, che dovrà andare davanti agli alleati a proteggere gli interessi di Roma, il nono principale esportatore al mondo che ha bisogno del multilateralismo delle strutture sovranazionali, ma ha un governo che arde dal desiderio nazionalista.

“In questo quadro dinamico, il nuovo governo si troverà a operare con un calendario di appuntamenti serrati – ha detto Paolo Magri, direttore del think tank italiano Ispi – dove dovrà declinare la poesia della campagna elettorale in un prosa coerente”, con il G7, “il battesimo di Conte”, che però, “servirà più a fotografare le divisioni dei potenti più che a produrre politiche collettive”.

L’Italia invece avrebbe tutto l’interesse perché il summit recuperi un ruolo più attivo su alcuni temi particolarmente sensibili per il nostro paese, spiega un’analisi dell’Ispi che prende in considerazioni i prossimi passaggi dell’agenda internazionale italiana. Ci sarebbero argomento fondamentali per Roma, come per esempio “la stabilità finanziaria (anche attraverso una maggiore collaborazione nell’ambito delle politiche monetarie) e lo stimolo agli investimenti produttivi, affinché si punti con maggior forza a contrastare le disuguaglianze dei redditi e le disparità regionali”.

E dopo il G7, il Consiglio europeo a fine giugno, il summit Nato a luglio e tutta una serie di scadenze cruciali: una su tutte, le sanzioni contro la Russia, da rinnovare entro il 31 luglio (con tutto il peso politico e geopolitico che la posizione italiana può assumere).

Al via il G7 delle tensioni, prima uscita internazionale del premier Conte

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