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Di fronte alle motivazioni del giudice Amit P. Metha, la domanda sorge un po’ spontanea: Google è davvero quel monopolista tale da avere “accesso a una scala che i suoi rivali non possono eguagliare?”. Il problema posto è serio e tutt’altro che scontato. Secondo la sentenza dell’Antitrust, Big G si sarebbe avvantaggiato sulla concorrenza, anche pagando per diventare motore di ricerca predefinito, senza però creare danni ai consumatori. E allora, di nuovo, davanti a quale caso siamo davanti?

La questione se l’è posta anche il Wall Street Journal. In un articolo a firma dell’Editorial board, il giornale finanziario è entrato nel dettaglio della sentenza per portare alla luce i dettagli meno chiari di questa vicenda. In primo luogo, il riferimento ai concorrenti su cui Google avrebbe avuto un vantaggio sembrerebbe escludere da questa lista le varie piattaforme social, i rivenditori online e i vari fornitori. Ma non è tanto questo il punto.

La colpa del colosso americano sarebbe quella di aver sfruttato una quantità superiore di dati per intercettare le preferenze degli utenti, ai quali ha potuto sottoporre annunci e inserzioni più mirate. Il che, è ovvio, crea uno squilibrio nel mercato. Una stortura che va risolta per il bene delle aziende. Il fatto è che non si capisce come a Google non è stata imposta una multa, né richiesto di vendere parte della sua attività. Le è stato implicitamente chiesto di cambiare modus operandi, ma senza spiegare in che modo – probabilmente sarà più chiaro dopo un’altra udienza a settembre. E soprattutto, non si capisce bene quale diritto dei consumatori Google abbia leso, ovvero la base di partenza da cui si muove l’Antitrust.

“Google non ha raggiunto il predominio del mercato per caso”, ha scritto il giudice nella sentenza. “Ha assunto migliaia di ingegneri altamente qualificati, ha innovato costantemente e ha preso decisioni aziendali oculate”. Tutto questo ha portato a un risultato, quale “il motore di ricerca di qualità più elevata del settore, che ha fatto guadagnare a Google la fiducia di centinaia di milioni di utenti giornalieri”. Insomma, a leggere queste parole verrebbe da dire che l’azienda di Mountain View ce l’abbia fatta solo per meriti propri, poiché “ha continuato a innovarsi nella ricerca”. Quindi niente di illegale.

Quello che viene contestato nell’aula di tribunale è che tramite i pagamenti delle società rivali Google avrebbe goduto di una posizione avvantaggiata, impedendo alle altre di entrare in competizione. Eppure, sono loro a volerlo. Apple ha stipulato un accordo da 20 miliardi di dollari con Big G, un patto che adesso rischia di saltare con conseguenze per entrambe. Ma Tim Cook parla con tutti: ad esempio con Mozilla, come riconosciuto dallo stesso giudice. Ci ha provato anche Microsoft, chiedendole di far diventare il suo Bing il motore di ricerca predefinito, e stesso tentativo lo ha avanzato la startup Duck Duck Go. Tutte e due hanno ricevuto risposta negativa, per ora.

Il paradosso è che a spiegare indirettamente il motivo è proprio il giudice Mehta. “I partner di Google apprezzano la sua qualità e continuano a sceglierla come motore di ricerca predefinito perché il suo offre la migliore possibilità di monetizzare le query”. Tradotto: sono i suoi stessi rivali a cercarlo.

Il dibattito andrà avanti fin quando la questione giudiziaria non sarà definitivamente conclusa. Si dovrà passare per altre aule di tribunale, perché Google ha già promesso ricorso. Facile intuire il perché, secondo il presidente per gli affari globali Kent Walker: “La sentenza riconosce che offriamo il miglior motore di ricerca ma conclude che non dovremmo essere autorizzati a renderlo immediatamente disponibile”. Qualcosa, anzi più di qualcosa, non torna.

Qualcosa non torna nella sentenza su Google. Parola di Wsj

La sentenza del giudice Amit P. Mehta ha dichiarato che Big G agisce in modo tale da soffocare le aziende rivali (e non i consumatori). Ma sono le stesse società che si appoggiano all’azienda di Mountain View, a cui la giustizia ha riconosciuto di essere la migliore anche per meriti propri. Qualcosa non torna

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