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La militarizzazione dello spazio è un concetto ancora poco chiaro. L’umanità si trova agli albori dell’era spaziale, eppure la pervasività delle attività extra-atmosferiche è rintracciabile nella vita di tutti i giorni, dall’utilizzo del Gps quando ci si muove in auto alle previsioni meteorologiche. Similmente, nell’ambito della Difesa, il dominio spaziale si configura come un mezzo indispensabile per la conduzione delle operazioni militari sul pianeta ma, almeno finora, non si qualifica come un luogo fisico della conflittualità. È per questo motivo che, sotto il nome di “operazioni spaziali” rientrano prevalentemente attività quali le comunicazioni e la cattura di immagini per scopi di intelligence. Infatti oggi per “militarizzazione dello spazio” si intende l’utilizzo di strumenti fisicamente localizzati nello spazio extra-atmosferico per supportare attività che hanno luogo all’interno della troposfera. Tuttavia, le cose sono destinate a cambiare.

Un dominio (momentaneamente) difensivo

Quando nel 2019 gli Stati Uniti furono il primo Paese a dotarsi di una Forza armata specificamente dedicata allo spazio, l’ormai nota Space Force, si è deciso che il personale impegnato in questa nuova branca sarebbe stato conosciuto col nome di Guardiani. Tale scelta terminologica non fu casuale: ad oggi infatti la Space Force conduce prevalentemente attività volte a proteggere l’integrità fisica e digitale degli assetti e delle capacità spaziali degli Usa. Nella pratica, ciò si traduce nel monitoraggio costante degli assetti orbitanti, nell’impiego di tecnologie utili alla conduzione di attività nella troposfera (principalmente Intelligence e comunicazioni) e nell’incrementare le capacità di lancio autonome degli Stati Uniti. Nell’odierno scenario militare internazionale, il compito dei Guardiani è tutt’altro che secondario nell’assicurare la supremazia bellica statunitense. Non solo il numero degli assetti spaziali Usa in orbita, siano essi commerciali o militari, già di per sé costituisce un vantaggio numerico schiacciante su ogni altro Paese, ma le capacità di tali assetti sono da ritenersi abilitanti nell’ambito della conduzione di operazioni complesse e multidominio. In altre parole, oggi nello spazio non si combatte. Non ancora.

Esistono le “armi spaziali”?

Benché ad oggi non esistano ufficialmente dei veri e propri sistemi d’arma pensati per essere adoperati nello spazio, la scienza ha dimostrato che essi sono concettualizzabili. E solitamente, quando si parla di Difesa, se qualcosa è concettualizzabile, allora sicuramente qualcuno lo sta sviluppando. L’evoluzione verso una dimensione offensiva nel dominio spaziale è attualmente in corso e si basa su tecnologie innovative e concetti chiave di fisica orbitale. La prima tipologia di armi che potrebbero essere impiegate nello spazio è quella delle armi anti-satellitari (Asat). Le armi Asat sono versioni “potenziate” dei sistemi di difesa aerea, capaci di raggiungere altitudini tali da rendere possibile il loro impiego per distruggere satelliti orbitanti. Un esempio di questo tipo di piattaforma, già esistente, è il sistema S-500 russo, i cui missili possono raggiungere i 200 chilometri di altitudine. Considerando che i satelliti orbitanti occupano una fascia di spazio compresa tra i 160 e i 2mila chilometri sopra la crosta terrestre (la cosiddetta Low Earth Orbit – Leo), sistemi come l’S-500 potrebbero facilmente impegnare alcuni satelliti suborbitali. Parlando invece di armi che possano essere impiegate direttamente dallo spazio e ad altitudini maggiori, bisogna ricordare che, data l’assenza di attrito atmosferico, qualsiasi oggetto scagliato dallo spazio nell’orbita terrestre mantiene un moto costante con una velocità di circa 28mila chilometri orari.

Una simile velocità renderebbe anche un semplice bullone un’arma capace di distruggere un satellite. Tuttavia, entrambe queste opzioni implicherebbero la distruzione fisica di satellite e vettore offensivo, con una conseguente produzione di detriti super-veloci che colpirebbero indiscriminatamente ogni assetto orbitante. È per questo che la conduzione di operazioni offensive nello spazio, per costituire un reale vantaggio operativo, dovrebbe permettere di colpire gli assetti dell’avversario senza cagionare un potenziale danno ai propri. Questo risultato può essere ottenuto mediante l’impiego di armi non cinetiche, vale dire armi a energia diretta. Le armi a energia diretta (volgarmente note come armi laser) sfruttano fasci concentrati di fotoni per generare concentrazioni di calore sufficienti a danneggiare, disabilitare o distruggere il bersaglio. Il loro progressivo impiego sulla Terra, specialmente nel campo della difesa aerea ravvicinata e contro assetti ipersonici, li rende ipoteticamente impiegabili anche nello spazio. Insomma, l’idea che nel 1983 valse alla Strategic defense initiative (Sdi) l’appellativo canzonatorio di “Star Wars Program” è oggi teoricamente riabilitabile. Gli attuali limiti tecnologici all’effettivo schieramento di questi sistemi riguardano l’energia necessaria ad alimentare l’arma, la quale dovrebbe essere generata direttamente nello spazio o trasportata da terra. Entrambe le opzioni implicano oggi dei costi proibitivi, ma ciò non le rende in alcun modo “fantascientifiche”. 

Manovrare nello spazio

In quanto luogo fisico, lo spazio extra-atmosferico — in particolare l’Orbita terrestre — può essere “occupato”, “conteso” e addirittura “conquistato”. Che si parli dei punti di Lagrange — in cui un corpo può mantenere la medesima posizione rispetto al Sole e alla Terra — o, più in generale, dell’intera Orbita bassa terrestre, lo spazio extra-atmosferico presenta una sua precisa geografia strategica in cui orientarsi. E dove ci si orienta, si può manovrare. Per “manovrare”, si intende in questo caso il significato spiccatamente militare del termine, che afferisce alla capacità di concentrare sforzi e risorse per ottenere un determinato risultato operativo. Finora questo tema è stato scarsamente approfondito sotto il profilo strategico a causa dell’assenza di veri e propri veicoli spaziali pensati per questo tipo di scopi. In questi anni, la Space Force ha condotto diverse sperimentazioni sullo spacecraft X-37B.

Evoluzione unmanned del concetto dello Space Shuttle, l’X-37B è uno spazioplano manovrabile capace di raggiungere lo spazio e condurre attività orbitali per un lasso di tempo limitato prima di tornare sulla Terra e atterrare come un qualunque aereo. Gli spazioplani non sono vere e proprie navicelle spaziali e il fatto che debbano superare l’atmosfera li rende poco idonei a trasportare armamenti, il cui peso aggiuntivo renderebbe più complesse le operazioni di lancio. Tuttavia, la Space Force sta valutando la costruzione di satelliti di rifornimento, i quali estenderebbero l’autonomia operativa degli spacecraft, rendendo possibile un loro impiego orbitale prolungato. Tali veicoli, anche se sprovvisti di veri e propri sistemi d’arma, potrebbero impiegare bracci meccanici e bacini di raccolta per “rapire” o manomettere i satelliti avversari. In base ad alcuni rilievi fotografici, pare che la Cina stia testando uno spazioplano capace di condurre simili operazioni.

Quando la fantascienza diventa solamente scienza

Gli attuali confini giuridici dell’Outer space treaty del 1967, il trattato internazionale che ha sancito l’utilizzo pacifico dello Spazio, si limitano a proibire l’uso di armi di distruzione di massa e lasciano una zona grigia relativa all’impiego di armamento convenzionale e non rivolto verso la Terra. Tuttavia, non è certo un caso se le Forze armate di diversi Paesi stanno costruendo strutture ad hoc per la pianificazione, la gestione e la conduzione di operazioni spaziali.

Gli Stati Uniti, anche in virtù del loro budget estensivo, sono stati i primi a capire che lo spazio rappresenterà presto un dominio completo della conflittualità e hanno giocato d’anticipo. Benché nata come costola dell’Aeronautica Usa, oggi la Space Force è a tutti gli effetti la settima branca delle Forze armate statunitensi, con uniformi proprie e una linea di comando autonoma in seno allo Stato maggiore.

Altri Stati, come la Russia, hanno optato per estendere le competenze delle proprie Armi aeree anche allo spazio. Ormai non è difficile imbattersi in denominazioni come “forze aerospaziali”, a indicare che le attività che ricadono sotto la responsabilità dell’Aeronautica non si fermano alla linea di Karman, la soglia dei cento chilometri dalla superficie terrestre dove si colloca convenzionalmente il confine tra Terra e Spazio. Indipendentemente dalle denominazioni, la progressiva trasformazione dello spazio in un dominio completo del conflitto è rintracciabile nella crescente attenzione che i maggiori dispositivi militari globali stanno dimostrando nei confronti di questo dominio. Il fatto che la maggior parte dei programmi della Space Force sia coperta dal segreto la dice lunga, specialmente considerando che i programmi resi pubblici già da soli cubano investimenti pari all’intera spesa per la Difesa di alcuni Stati. I prossimi decenni vedranno un’evoluzione significativa delle attività spaziali in ambito civile, con stazioni commerciali orbitanti, assetti completamente riutilizzabili e missioni volte alla colonizzazione di altri corpi celesti. Se è vero che molte tecnologie civili sono state mutuate dall’ambito militare, non c’è motivo per ritenere che il processo non possa avvenire anche inversamente. Questa consapevolezza, unitamente all’assenza di iniziative concrete per limitare le attività nello spazio, deve essere chiara. La militarizzazione dello spazio è appena cominciata.

Il futuro dei conflitti sarà nello spazio. La militarizzazione spaziale tra fantascienza e realtà

La militarizzazione dello spazio è una realtà in evoluzione che segna una nuova frontiera della conflittualità globale. Gli Stati Uniti, con la Space Force, guidano questa transizione, mentre altri Paesi come Russia e Cina seguono a ruota, trasformando lo spazio in un campo di competizione strategica e militare

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