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“Siamo pronti a qualsiasi situazione possa essere necessaria a Gaza, ma anche in Libano o in altre aree”: il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ribadisce la linea del suo governo. È a Washington DC per discutere gli “sviluppi della situazione”, dice ai giornalisti prima della partenza, e intende parlare sia della guerra in corso contro Hamas, sia di quella che potrebbe presto (ri)esplodere contro Hezbollah.

Sin dal 7ottobre 2023, giorno del sanguinoso attacco di Hamas contro Israele che ha aperto la stagione di conflitto, i miliziani libanesi sono stati tra le preoccupazioni principali: hanno sfruttato l’occasione dell’invasione della Striscia di Gaza ordinata dal governo Netanyahu per colpire lo Stato ebraico nemico attraverso un costante lancio di razzi e scambi di colpi al confine — dove per altro il controllo della (in)sicurezza è affidato alla missione onusiana Unifil, di cui l’Italia è principale contributore. Ma mai come in questi giorni si è arrivati così vicini alla possibilità che si torni a combattere la guerra mai pacificata del 2006.

Finora una serie di equilibri hanno retto. È coinvolto l’Iran, in parte “dante causa” libanese (la milizia è infatti collegata a doppio filo con i Pasdaran); l’Arabia Saudita, molto vicina al mondo sunnita libanese, quello che nel sistema confessionale di Beirut esprime la carica di capo del governo; la Francia e l’Italia, che hanno ottimi livelli di influenza nel Levante; gli Stati Uniti, che anche recentemente hanno ospitato il capo delle Forze armate, ambiente interlocutore primario del diplomazia del Pentagono. Anche il G7 dei leader riuniti a Borgo Egnazia ha lavorato sulla crisi. Soprattutto, Israele ha evitato di aprire un altro fronte perché sarebbe complicato da gestire, anche perché Hezbollah è di gran lunga più attrezzato militarmente di Hamas; Hezbollah ha cercato di placare gli animi interni più irrequieti, perché una guerra totale sarebbe devastante (per il partito/milizia, per il Libano, per i rapporti con Teheran).

L’apertura ufficiale di un fronte settentrionale è un rischio che nessuno ha voluto correre, consapevoli tutti che da lì potrebbe passare la tanto temuta “escalation regionale” (le cui derive sono potenzialmente incontrollabili). Hezbollah è troppo importante sia a livello strategico per l’Iran, sia a livello di operazioni e narrazioni in tutto il Medio Oriente (e oltre). Il leader spirituale del Partito di Dio libanese, Hassan Nasrallah, è considerato una guida da tanti gruppi sciiti nella regione — i quali adesso potrebbero sostenere i libanesi contro Israele. Questo amplifica i rischi. Eppure l’evoluzione del campo di battaglia gazawi — dove resta solo la possibilità di un attacco a Rafah, che Israele ritiene l’ultima roccaforte di Hamas, nonostante l’enorme rischio umanitario — e le necessità politiche di non arretrare davanti alla minaccia, potrebbero lasciare pochi spazi per evitare il peggio.

Israele sta muovendo reparti di fanteria e artiglieria verso nord, e fa circolare informazioni controverse che sembrano aprire la strada e future operazioni. Per esempio: fa discutere in questi giorni un articolo informato del Telegraph in cui si spiega come Hezbollah stia immagazzinando armi in alcuni capannoni e magazzini sotterranei dell’aeroporto Rafik Hariri di Beirut. Ma Hezbollah muove armi attraverso lo scalo da decenni — e Israele lo sa bene, visto che segue assiduamente i traffici con cui la milizia riceve assistenza dai Pasdaran. Dunque rivelare questo non-segreto tramite la stampa mainstream sembra più essere un messaggio politico sulla eventualità che, in caso di guerra, Israele possa bombardare anche l’aeroporto civile di Beirut.

Anche per questo, il traffico aereo sul Libano è stato ridotto da qualche giorno. Ad esempio, la portaerei “Ike” si è posizionata nel Mediterraneo orientale prima di tornare a Norfolk e attivato una rotazione di assetti dal Pacifico che l’ultima volta si era vista nel 2021, quando i Talebani si ripresero l’Afghanistan e gli occidentali furono costretti a scappare dal Paese. Israele ha già fatto sapere che ci sono piani approvati per l’attacco in Libano, e il resto del mondo si sta preparando.

Di questi parlerà Gallant con il segretario di Stato Antony Blinken, il suo omologo Lloyd Austin, il direttore della Cia William Burns e l’inviato speciale per il Medio Oriente Amos Hochstein. Il timore americano è noto: l’uscita dal gabinetto di guerra dell’equilibrato Benny Gantz rischia di far diventare ancora più aggressivo, vittima dei radicali, l’esecutivo di Benjamin Netanyahu — e da tempo si teme che l’apertura del fronte settentrionale possa servire da veicolo politico per tenere alta la tensione e confermare il governo (di emergenza) al potere.

Gli americani temono (a ragione) anche che Israele non possa reggere l’impatto di una guerra contro Hezbollah. Le difese aere dello Stato ebraico potrebbero subire quella che viene chiamata “tattica della saturazione”, ossia lanciare una fitta serie di missili tali da saturare le capacità di difesa aerea. I danni sarebbero mostruosi. Nei video propagandistici i miliziani libanesi hanno già identificato porti e aeroporti, basi e centri civili come potenziali target. Inoltre gli israeliani dovrebbero fronteggiare un esercito di qualche decina di migliaia di uomini, alcuni dei quali molto ben addestrati e tutti fanatici ideologici antisemiti: ben altra cosa rispetto ad Hamas — che intanto rallenta sui negoziati di cessate e il fuoco perché sa che trarrebbe vantaggio dall’esplosione del fronte settentrionale.

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