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Il primo ottobre 2017 sarà ricordato in Spagna e in Europa come la domenica degli errori incrociati. Il primo errore è il referendum. Hanno votato si dice in due milioni su 7,5 milioni di abitanti della Catalogna e il 90% ha detto sì. Gli altri, quelli che non hanno votato (e sono comunque la maggioranza del corpo elettorale) non si sa come la pensino o si suppone che siano contrari. Una sia pur consistente minoranza rumorosa ha parlato in nome di tutto il popolo, come succede sempre in ogni regime rivoluzionario o di democrazia non costituzionale, ma popolare.

Il secondo errore lo ha commesso Mariano Rajoy. Ordinare alla polizia un intervento duro per impedire il voto si è rivelato del tutto inefficace, controproducente, disastroso per l’immagine di un primo ministro e di un governo che, non lo dimentichiamo, si regge con gli stecchini.

Il terzo errore riguarda l’Unione europea. Il principio di non ingerenza evocato per giustificare il non far nulla, ha messo a nudo la debolezza delle istituzioni di Bruxelles. Quel che accade in Catalogna non riguarda solo la Spagna, ma tutti i cittadini europei. La cittadinanza europea esiste, insieme a quella nazionale, essa si estende ai catalani e a tutti gli altri. La Ue (il Parlamento europeo ancor più e prima della commissione) avrebbe dovuto proporsi non come mediatrice, ma come garante dell’interesse generale dell’Unione e fare tutto il possibile per evitare lo scontro frontale.

Certo, i duellanti dovevano muovere il primo passo, ma era chiaro che entrambi cercavano la prova di forza, la voleva Rajoy e la voleva soprattutto Carles Puigdemont, nazionalista della prima ora, acerrimo nemico dei socialisti, diventato presidente della Generalitat in seguito a un accordo di vertice tra i partiti che formavano la coalizione “insieme per il sì”.

Al referendum si arriva non per volontà dei catalani (almeno stando ai sondaggi soltanto il 34% voleva la secessione), ma per scelta secessionista del presidente della Generalitat che aveva promesso prima delle elezioni una consultazione popolare, ma non vincolante, sulla indipendenza. “Insieme per il Sì” ottenne 72 seggi su 135, non la maggioranza assoluta dei voti (il 47,9%). Una volta preso il comando, Pudjemont ha cambiato posizione in linea con il classico comportamento dei leader populisti.

È stato scritto anche da autorevoli firme come Alberto Alesina sul Corriere della Sera, che alla Catalogna è stata concesso una autonomia più che altro “culturale” e che lo Stato spagnolo è centralista. Al contrario, è uno dei meno centralisti d’Europa, tanto che è stato definito dagli studiosi uno “Stato delle autonomie” molto simile alla Repubblica federale tedesca. Basta leggersi la costituzione e vedere come negli ultimi vent’anni è andata avanti una devoluzione molto ampia dei poteri e delle istituzioni (parlamento, governo, polizia) e delle materie (sicurezza, difesa, dogane, sanità, risparmio, ambiente, comunicazioni, ecc.) non solo alle “nazionalità storiche” (Catalogna, Galizia, Euskadi, cioè i Paesi Baschi), ma anche ad altre regioni come l’Andalusia.

Il punto debole è il decentramento fiscale. A differenza dalla Navarra e dai Paesi Baschi gli introiti delle tasse vengono versati al governo centrale che poi ne restituisce circa la metà. Una conferenza (non dissimile a quella italiana) stabilisce di volta in volta le risorse e le politiche per i servizi locali che hanno una portata nazionale.

Questo squilibrio poteva essere risolto a maggiore favore della Catalogna? Probabilmente sì, e questo avrebbe potuto essere l’oggetto di un negoziato volto ad ampliare il grado di autonomia. Ma lo voleva la coalizione nazionalista? Evidentemente no. E il governo centrale ha offerto abbastanza per dividere gli oltranzisti dalle componenti più moderate, si è rivolto ai catalani mettendo sul piatto delle proposte in grado di acquisire il consenso di chi ancora esercita la ragione? Evidentemente no, non abbastanza.

A questo punto che succederà? I nazionalisti vogliono andare avanti a forza di spallate fino alla secessione. Per domani è annunciato uno sciopero generale. Il governo madrileno è rimasto senza cartucce e certo non è consigliabile continuare un confronto “militare” che non avrebbe nessun esito positivo.

Rajoy potrebbe temporeggiare, lasciare che Pudjemont trascini la Catalogna in un vicolo cieco restando vittima delle proprie contraddizioni. Ci vorrà tempo, sarà molto costoso per tutti gli spagnoli e non è detto che gli animi anziché sbollire non vengano eccitati fino allo spasmo. Siamo in Spagna dopo tutto. Oppure potrebbe indire un referendum consultivo esteso a tutto il paese sicuro di isolare i nazionalisti catalani. Improbabile che proponga una nuova costituzione: nemmeno il re ne ha il potere e un suo intervento sarebbe molto delicato sul piano politico e istituzionale (gli indipendentisti catalani, del resto, sono repubblicani). La terza possibilità è studiare con calma una piattaforma negoziale, ottenere su questa un ampio sostegno trasversale del parlamento e aprire il dialogo con Pudjemont.

Su questa base si può chiedere il sostegno dell’Unione europea e un intervento come garante della correttezza del negoziato. Nessuno vuole che la Spagna diventi una nuova Jugoslavia, anzi nessuno dovrebbe permetterlo, la non ingerenza non può trasformarsi in complice negligenza.

Referendum in Catalogna, ecco i 3 errori di Puigdemont, Rajoy e Ue

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