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“La nave transitava attraverso un corridoio nello Stretto che è al di là del mare territoriale di qualsiasi Stato costiero”, dice il comunicato con cui la Settima Flotta degli Stati Uniti ha raccontato il passaggio attraverso lo Stretto dinastie a dello USS Haley, cacciatorpediniere lancia missili classe Arley Burke, la terza nave da guerra americana che solca quelle acque sensibilissime dall’inizio dell’anno.

“Il transito dell’Halsey attraverso lo Stretto di Taiwan dimostra l’impegno degli Stati Uniti a sostenere la libertà di navigazione per tutte le nazioni come principio. Nessun membro della Comunità internazionale dovrebbe essere intimidito o costretto a rinunciare ai propri diritti e libertà”, continua la dichiarazione, che stressa quel “[non] essere intimidito”.

È un fattore che sta emergendo sempre più chiaramente nel dibattito internazionale, sia istituzionale che accademico, anche se ancora più in contesti privati che pubblicamente. Ed è questo che rende interessante la missione dell’Halsey e la dichiarazione che la accompagna. Non bisogna aver paura di parlare di Taiwan, non bisogna temere la reazione cinese. Ed è un elemento centrale: se Pechino vuole chiudere le porte della Comunità internazionale a Taipei, impedendogli per esempio la partecipazione a istituzioni come L’Organizzazione mondiale della sanità (partecipazione su cui Taipei pressa, come dimostra questo video promozionale), c’è una contro spinta per parlare del destino e della situazione dell’isola autogovernata.

E non è un caso se queste attività diplomatiche — la missione del cacciatorpediniere americano rientra tra queste, sotto forma di naval diplomacy — coincidano con l’avvicinarsi dell’inaugurazione del mandato del presidente eletto Lai Ching-te (che ci sarà lunedì 20 maggio). L’amministrazione Lai seguirà le direttrici di politica estera di Tsai Ing-wen, la presidentessa uscente di cui è stato vice. E sebbene con la complicazione non banale di avere un Parlamento comandato dall’opposizione, alcuni elementi resteranno ben chiari — e tra questi lo sforzo di rendere Taiwan diplomaticamente riconoscibile, permettendo all’isola di aumentare i propri legami internazionali e complicando così la strada per l’unificazione, che il Partito Comunista Cinese rivendica come esistenziale.

Il Pentagono definisce le missioni come quelle dell’Halsey “Fonops”, che nel sistema pieno di acronimi anglosassone sta per “Freedom of navigation operations”. Ora, al concetto di libertà della navigazione (che è parte fondale della dottrina indo-pacifica statunitense per traslato dai giapponesi), vi si aggiunge quello del non temere intimidazioni. È una dialettica che ha valore ampio. Riguarda Taiwan, che nelle prossime settimane potrebbe essere accerchiata da uno show of force cinese, per mostrare i muscoli davanti a Lai — che Pechino definisce “indipendentista”. Ma si allunga fino alla porzione di Mar Cinese in cui la Cina opera in forma coercitiva e sempre più aggressiva contro le Filippine.

Come nel caso dell’esercitazione “Balikatan 24” (da cui, nell’ultima edizione di Indo Pacific Salad, abbiamo tratto la foto di un Marines americano che guida, con una mano sulla spalla, un collega filippino), gli Stati Uniti mandano un messaggio, dimostrando quella presenza. E il messaggio non è diretto soltanto a Pechino o a Manila e Taipei, ma ha come interlocutori una serie di osservatori internazionali, partner, alleati o neutri, che percepiscono il peso delle ritorsioni cinesi e soffrono quelle intimidazioni. È uno dei grandi temi che Washington vuole tramettere anche tramite il G7, “veicolo” — come spiegava Matt Turpin (Hoover Inst.) — con cui gli Usa intendono condividere le loro policy sulla Cina e sull’Indo Pacifico.

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