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Da quanto Donald Trump ha rimesso piede alla Casa Bianca, poco meno di due mesi fa, uno dei mercati più discussi e controversi degli ultimi anni, quello delle criptovalute, ha conosciuto una nuova effervescenza. Nessuna età dell’oro (dopo l’exploit di inizio anno, nell’ultimo mese Bitcoin ha perso il 17% del suo valore, passando dai quasi mitologici 90 mila dollari a 76 mila). Ma va messa agli atti l’ebollizione che sta interessando il mondo delle criptovalute, con diversi governi che cercano una possibile quadra normativa per le valute virtuali.

Va detto che i pregiudizi, attorno ai criptoasset, sono ancora molti. C’è chi vi intravede uno strumento con cui aggirare sanzioni o eludere restrizioni di carattere commerciale e finanziario, chi semplicemente non considera Bitcoin e le sue sorelle come una reale moneta in grado di generare valore e ricchezza e tutelare il risparmio, oltre a garantire la sicurezza dei pagamenti. E chi, infine, vi scorge una ulteriore minaccia all’ambiente, dal momento che il fabbisogno energetico dei server utilizzati per estrarre la moneta virtuale (il cosiddetto mining), è enorme. Bitcoin però esiste e in qualche modo bisogna farci i conti. Dunque, come si stanno muovendo i diversi ecosistemi globali? Quali strategie stanno mettendo a terra? E l’Italia, cosa fa?

LA CARTA EUROPEA (E ITALIANA)

Partendo dall’Europa e dall’Italia, il Vecchio Continente ha sempre avuto una posizione piuttosto netta in materia di criptovalute, anche e non solo grazie alle barricate alzate dalla Banca centrale europea, che ha sempre percepito i criptoasset (unitamente alla Consob italiana), come una minaccia all’economia reale e al risparmio. Tanto è vero che, fin da quanto Fabio Panetta era membro del comitato esecutivo di Francoforte, in rappresentanza dell’Italia, all’Eurotower ha preso anima e corpo, anche grazie alla spinta dell’attuale governatore di Bankitalia, la creazione di un euro digitale. Ovvero una valuta del tutto legale, emessa dalla stessa vigilanza e da affiancare alla carta moneta. Un progetto che ha ampiamente superato la fase istruttoria e che ora va semplicemente messo a terra e immesso nel mercato.

Nel frattempo, però, il ritorno di Trump ha sparigliato le carte, spingendo Bruxelles a concepire un paio di anni fa il Micar, il Regolamento europeo che introduce un quadro normativo armonizzato per le valute virtuali. Normativa che ha di riflesso spinto i Paesi membri dell’Unione ad adeguarsi, seppur in tempi e modalità diverse. L’Italia non è stata certo da meno, come dimostra la riunione tenutasi a Palazzo Chigi alla presenza delle autorità di vigilanza, Bankitalia e Consob in testa e del governo, rappresentato per l’occasione dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dal responsabile dell’Interno, Matteo Piantedosi e dal sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano.

Obiettivo del vertice, fare il punto sul Dlgs 129 del 2024 che recepisce il Micar, in vista della prossima scadenza del 30 giugno 2025, data entro la quale i soggetti che intendono operare in Italia nell’ambito delle cripto-attività dovranno presentare istanza di autorizzazione. Le stesse Consob e Bankitalia hanno sottoscritto un protocollo d’intesa volto a definire gli ambiti della cooperazione tra le due autorità alla luce del citato Regolamento, che come detto introduce una disciplina armonizzata a livello europeo per l’emissione, l’offerta al pubblico e la prestazione di servizi aventi a oggetto criptoattività. Ora anche l’Italia è finalmente in manovra.

LA SCELTA (ELITARIA) DELLA RUSSIA

Altro scacchiere, la Russia, che sembra essere anch’essa in manovra. Al Cremlino continuano a essere convinti che le criptovalute siano un buon modo per aggirare le sanzioni dell’Occidente, scattate all’indomani dell’indomani dell’invasione dell’Ucraina. Ma a conti fatti, più una scelta obbligata visto che a Mosca hanno sempre preferito la messa a terra di un rublo digitale, virtuale sì ma con corso legale (come fatto dalla Cina con lo e-yuan), piuttosto che spianare la strada a Bitcoin e le sue sorelle.

Fatto sta che la Bank of Russia, proprio in queste ore, ha presentato al governo della Federazione una serie di proposte per regolamentare gli investimenti in criptovalute, puntando su una sperimentazione che coinvolgerà solo una ristretta élite di investitori. Con questa mossa, la Russia sembra cercare una quadra tra la regolamentazione del settore delle criptovalute e il mantenimento di un forte controllo statale. Secondo il piano, solo i cittadini ricchi, secondo gli standard della Russia, potranno mettere le mani su Bitcoin. Il che significa che solo chi detiene un patrimonio superiore a 100 milioni di rubli (oltre 1 milione di euro) o con un reddito annuo superiore a 50 milioni di rubli (mezzo milione di euro) potrà partecipare al progetto. La fase sperimentale durerà tre anni e sarà riservata agli investitori particolarmente qualificati”, ovvero coloro che già detengono significativi asset finanziari.

CUORE AMERICANO

Ed eccoci agli Stati Uniti, in questo momento sono un po’ il motore globale delle criptovalute. Fin dai giorni in cui Trump era in odore di vittoria per un ritorno alla Casa Bianca, Bitcoin e in generale le altre criptovalute, come la più recente Doge di Elon Musk, hanno registrato un’autentica impennata del loro valore. Bitcoin, tanto per fare un esempio, è arrivata a sfiorare nel mese di gennaio i 90 mila dollari, per poi imboccare una traiettoria discendente. Dietro la fiammata, c’era la promessa elettorale di Trump di creare un ecosistema favorevole per i criptoasset, sotto forma di cornice normativa con tanto di ancoraggio al dollaro. Dunque, moneta virtuale legata a moneta legale, per fare gli Usa la centralina e la fucina delle valute virtuali.

Nelle ultime settimane, però, complice la progressiva caduta delle criptovalute, Washington ha rilanciato una proposta che per la verità era già stata paventata da Trump lo scorso luglio, a Nashville, in piena corsa per la Casa Bianca. Ovvero, la creazione di due riserve nazionali di criptovalute, dal valore potenziale di svariati miliardi di dollari: in pratica, due bacini definiti strategici, uno contenente solo Bitcoin, l’altro le restanti criptovalute. Entrambe le riserve, poi, saranno alimentate con asset digitali sequestrati dalle agenzie governative statunitensi nell’ambito di attività condotte dalle forze dell’ordine. Attualmente si stima che gli Stati Uniti detengano circa 200mila bitcoin per un valore di circa 17 miliardi di dollari (stando ai prezzi attuali), anche se la cifra esatta non è mai stata confermata.

Ora, la decisione degli Stati Uniti di istituire una riserva strategica di Bitcoin rappresenta certamente un passo significativo verso l’adozione globale su larga scala delle criptovalute. Non è tutto. Per gli Usa, nel lungo periodo, potrebbe non solo fungere da riserva di valore, ma anche contribuire potenzialmente alla riduzione del debito nazionale. Lo step successivo sarebbe il famoso ancoraggio al dollaro, creando i presupposti per il più grande mercato mondiale di stablecoin, ovvero monete virtuali ma utilizzabili anche per i pagamenti, a differenza delle criptovalute che sono per lo più destinate agli investimenti.

Crypto

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