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Ahmed Ali Saleh, figlio dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, giura vendetta contro i ribelli houthi, che lunedì hanno ucciso brutalmente suo padre in un agguato ed esibito alle telecamere il suo corpo martoriato. Potrebbe essere Ahmed a guidare la rivolta che il padre Ali, con un capovolgimento di fronte maturato la settimana scorsa, aveva promesso di condurre contro il movimento sciita che tre anni fa ha estromesso il presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi e da allora controlla la capitale Sana’a resistendo al tentativo della coalizione araba di espellerlo.

Dal suo rifugio ad Abu Dhabi, capitale di quegli Emirati Arabi Uniti la cui aviazione, insieme a quella di Riad, sta bombardando incessantemente dal marzo 2015 le posizioni degli houthi, Ahmed Saleh assicura che condurrà “la battaglia fino a che l’ultimo houthi non sarà espulso dallo Yemen”. È la prima volta dall’inizio del conflitto che l’ex comandante parla pubblicamente. Fino a questo momento è stato in custodia del governo degli Emirati, si dice agli arresti domiciliari, ed ora potrebbe rappresentare per la coalizione araba la carta da sfoderare per cercare di riprendere il controllo della situazione. Una situazione che ha conosciuto una drastica evoluzione dopo il cambio di casacca di Ali Saleh e l’inizio dei combattimenti a Sana’a tra le forze leali all’ex presidente e le milizie houthi con cui aveva stretto una salda alleanza.

Parlando all’emittente saudita al-Ekhbariya TV, Ahmed promette di punire chi ha versato il “sangue di mio padre” con una vendetta che “risuonerà nelle orecchie dell’Iran”. E invita i sostenitori dell’ex presidente a “riprendere lo Yemen dalle mani delle milizie iraniane degli houthi”. Come precisa un suo aiutante in una dichiarazione rilasciata all’agenzia Reuters, Ahmed Saleh si accinge ora ad affrontare “i nemici della patria e dell’umanità, che stanno cercando di cancellare la sua identità e le sue conquiste e stanno umiliando lo Yemen e gli yemeniti”.

Il brutale assassinio di Ali Saleh da parte degli houthi, che lo hanno accusato di “tradimento” dopo che, con un discorso televisivo, aveva annunciato di voler “voltare pagina”, potrebbe segnare un cambio di passo in un conflitto che si sta protraendo dall’autunno del 2014. Ieri Sana’a era avvolta in una calma surreale, dopo cinque giorni di combattimenti tra le fazioni pro-Saleh e gli houthi che hanno causato secondo la Croce Rossa 230 morti. Il movimento sciita ha celebrato in piazza la morte dell’ex alleato, con decine di migliaia di persone che, secondo l’AFP, urlavano slogan come “Sana’a è libera e lo stato è ancora in piedi”. Si moltiplicano frattanto le voci di regolamenti dei conti. Mahmoud Ali al-Houthi, capo del Comitato Rivoluzionario degli houthi, nega che si stiano passando per le armi i membri del partito di Saleh: “Stiamo prendendoci cura di alcuni dei figli di Saleh”, dice al-Houthi, “e non li abbiamo giustiziati”. Ma le agenzie battono la notizia della morte di Tareq Mohammed Abdullah Saleh, nipote dell’ex presidente e importante comandante militare.

Non è difficile prevedere come si svilupperà la situazione sul terreno. Adam Baron, visiting fellow dell’European Council on Foreign Relations, dice ad ABC News che la morte di Saleh non resterà senza conseguenze. “Il fatto che sia stato ucciso in modo così umiliante”, sottolinea Baron, “ha davvero suscitato rabbia in molte persone”. Se a Sana’a gli scontri tra houthi e sostenitori dell’ex presidente si sono conclusi per ora con il prevalere dei primi, i secondi cercheranno di riprendere l’iniziativa. Questo almeno è ciò che sperano in Arabia Saudita, dove il governo dichiara che la sollevazione della capitale “aiuterà a liberare la nazione sorella dello Yemen dalla repressione, dalle minacce di morte (…) dalle esplosioni e dal sequestro di proprietà pubbliche e private”.

In una facile previsione, il segretario alla Difesa americano James Mattis intravede all’orizzonte “una guerra ancora più violenta”. Come ha dichiarato ieri a bordo dell’aereo che lo riportava a Washington dopo un breve viaggio in Medio Oriente, “una cosa probabile che penso di poter dire con molta preoccupazione è che la situazione laggiù per la gente innocente, il lato umanitario, peggiorerà nel breve termine”.

Anche per il ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel, la situazione in Yemen è “ancora più drammatica” di quella che si registra sul fronte di un’altra grave emergenza umanitaria, quella dei profughi rohingya. È stata l’Onu, d’altra parte, a definire quella yemenita la “peggiore” crisi del momento, con diciassette milioni di persone che hanno disperato bisogno di aiuti umanitari, sette che soffrono la fame e un milione di casi di colera. Particolarmente grave la situazione a Sana’a, città di due milioni di abitanti che è stata prigioniera nell’ultima settimana degli scontri tra opposte fazioni.

Il coordinatore umanitario Onu in Yemen, Jamie McGoldrick, ha confermato la relativa calma delle ultime ventiquattr’ore, evidenziata dal fatto che gli aerei con gli aiuti dell’Onu e della Croce Rossa sono atterrati regolarmente nell’aeroporto di Sana’a. “La gente”, ha raccontato alla stampa ieri McGoldrick, “sta ora uscendo dalle proprie case dopo essere stata barricata per cinque giorni. (…) sta cercando cure mediche e tentando di calmare i bambini terrorizzati che hanno patito cinque giorni di implacabili bombardamenti”.

Quello della popolazione è un vero e proprio “incubo”, ha detto ieri il capo della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit, a detta del quale “tutti i mezzi devono essere usati per liberare il popolo yemenita”. Anche, chissà, il ritorno di un altro Saleh, incarnato dal figlio che, da Abu Dhabi, promette di rendere giustizia al padre giustiziato.

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