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Il presidente francese Emmanuel Macron ha gettato la maschera, non solo quella di aver tentato di accreditarsi come un europeista convinto, ma anche quella di voler vantare un approccio manageriale alla politica.

Dopo la Libia, di cui Francia e Gran Bretagna condividono gran parte delle responsabilità dell’attuale caos, Macron ha giocato la carta del “bonapartismo” anche su Fincantieri, rimettendo in discussione un accordo che l’Italia aveva sottoscritto con il precedente governo francese. In pratica Macron ha deciso di far diventare carta straccia un contratto industriale europeo concluso nell’aprile scorso tra Fincantieri e Stx, minacciando di nazionalizzare i cantieri di Saint Nazaire se l’Italia non si piegherà a nuove condizioni favorevoli alla Francia. È evidente che diventa così impossibile, per Macron, mantenere intatto il suo blasone europeista. Né reggono le argomentazioni messe su in fretta per tentare di giustificare tale comportamento: la difesa dei posti di lavoro, la valenza strategica degli storici cantieri francesi, ecc.

Ma, se così stanno le cose, non basta stigmatizzare quest’atteggiamento sui mass media: per l’Italia si tratta di un danno concreto. E se per la Libia le ripercussioni negative sono prevedibili nel futuro (concessioni petrolifere e di opere pubbliche) nel caso Fincantieri vi sono state perdite immediate per gli azionisti della società cantieristica e un articolato business plan sull’integrazione italo-francese rischia di finire nel cestino.

A questo punto la “palla” passa alla politica, ai nostri rappresentanti che avevano osannato l’avvento di Macron prima ancora di verificarne le azioni concrete. I rapporti economici e commerciali con la Francia sono da anni sotto i riflettori dell’opinione pubblica, proprio per quella malcelata sensazione che i cugini d’Oltralpe abbiano sempre la tentazione di fare i padroni in casa nostra. I casi Parmalat, della moda, di Telecom, di Unicredit e di Generali sono la testimonianza di questo atteggiamento.

La nostra risposta, allora, deve percorrere due binari: far sentire lo Stato più vicino all’industria e alla finanza italiane per fare finalmente “sistema Paese”; pretendere da Bruxelles un intervento che confermi l’esistenza di un mercato unico con regole della concorrenza da rispettare. O vale per tutti o per nessuno.

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