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Per permettere ad Alitalia di continuare a volare, il governo ha nominato tre commissari ed erogato un prestito ponte di 600 milioni. Era opportuno mettere altri soldi pubblici nella compagnia, dopo i 7,5 miliardi spesi negli ultimi decenni? Cominciamo col dire che il prestito non è un prestito, ma una sovvenzione la cui finalità è di coprire in anticipo le perdite che la gestione commissariale sosterrà prevedibilmente in un anno di operatività dell’azienda.

Lo si può desumere dal fatto che l’importo corrisponde alle perdite stimate per il 2016. L’identità delle due cifre documenta anche l’intenzione di protrarre la gestione commissariale ben oltre i sei mesi annunciati, che coincidono con la stagione più favorevole per traffico e ricavi. Il prestito non è avvenuto a condizioni di mercato, dato che nessun operatore sarebbe mai disposto a finanziare un’azienda insolvente. Alitalia non sarà mai in grado di rimborsare i 600 milioni, né di pagare l’alto interesse previsto. Più corretto sarebbe stato, allora, richiedere l’autorizzazione comunitaria all’aiuto di Stato, giustificandolo con le esigenze di continuità del servizio e applicarvi un tasso ridotto ancorché superiore a quello al quale il Tesoro è in grado di finanziarsi sul mercato nel breve termine.

Lo scenario alternativo al finanziamento pubblico era la cessazione dell’operatività aziendale per mancanza di cassa, la messa a terra degli aerei e la perdita dello stipendio per circa 12mila dipendenti. Anche in questo caso il contribuente avrebbe pagato, quanto meno per il sostegno pubblico ai lavoratori. Su base annua lo si può stimare un onere di circa 400 milioni (i due terzi dei circa 600 milioni di costo annuo del fattore lavoro). In un anno e mezzo o massimo due, il costo per le casse pubbliche avrebbe eguagliato l’esborso fatto ora e in seguito sarebbe divenuto più consistente. L’alternativa non era dunque tra mettere altri soldi del contribuente in Alitalia o non farlo, bensì tra metterli per rimediare provvisoriamente al dissesto aziendale oppure per rimediare alle conseguenze sociali del dissesto aziendale. Più o meno come scegliere tra la padella e la brace. L’interruzione dei voli avrebbe tuttavia prodotto anche altre conseguenze, in primo luogo l’impossibilità di viaggiare con Alitalia per i circa dodici milioni di passeggeri che contavano di farlo nei prossimi sei mesi di alta stagione. Chi ha prenotato e pagato per voli futuri avrebbe perso i soldi spesi e il diritto al viaggio e avrebbe dovuto cercarsi un posto su altro vettore. La perdita è quantificabile in 300-400 milioni, stimando 2-2,5 milioni di prenotazioni a un prezzo medio di 150 euro. A parte l’onere di pagare due volte il biglietto, non è detto che i passeggeri lasciati a terra sarebbero stati in grado di trovare posto a bordo di altri vettori.

Sui voli europei, l’offerta complessiva è ampia e Alitalia vi detiene meno del 10% del mercato. Su quelli intercontinentali, la quota di mercato è maggiore ma comunque contenuta, circa il 15%. L’unico segmento che appare problematico è quello dei voli nazionali, dove Alitalia detiene ancora più del 40% del mercato. Se l’offerta sul segmento domestico si dimezza o quasi, è evidente che solo una minoranza ha la possibilità di trovare posto su un altro vettore e il fatto di essere in alta stagione non consente alle compagnie low cost di incrementare i voli utilizzando una riserva di capacità. Il ragionamento, che è stato utilizzato ad esempio dal ministro Calenda, vale tuttavia esclusivamente per la prossima stagione estiva. Già dall’autunno i vettori low cost sarebbero perfettamente in grado di sostituire Alitalia utilizzando sui cieli italiani aeromobili che tendono a lasciare a terra nella bassa stagione e si attrezzerebbero per tempo per la successiva estate. La seconda grande differenza tra l’avere un’azienda funzionante oppure no riguarda direttamente i commissari: con gli aerei a terra non resterebbe loro che cedere pochi asset patrimoniali di modico valore e lasciare gran parte dei creditori insoddisfatti.

Quelli che sono i beni di maggior valore per l’azienda – gli slot aeroportuali e i passeggeri – andrebbero perduti e potrebbero essere appropriati gratuitamente dai concorrenti. Per gli slot vale il principio “use it or lose it”: se Alitalia smette di volare ritornano nella disponibilità dei gestori aeroportuali, i quali debbono assegnarli ai vettori richiedenti secondo la lista d’attesa. Se la compagnia continua a volare, gli slot sono acquisibili da altri soggetti solo a condizione di comprare l’azienda che li sta usando. Appare dunque ragionevole che, in un’ottica di minimizzazione del danno, si siano messi altri soldi del contribuente per garantire la continuità dei voli. Tuttavia in un orizzonte più ampio non si ha garanzia che i due scenari restino effettivamente alternativi. Dipende tutto dal successo o dall’insuccesso dei tre commissari. Se non riescono a rimettere rapidamente ordine nella gestione e nei conti aziendali e a trovare uno o più compratori (di mercato, non aziende pubbliche), allora è certo che il contribuente, oltre alla padella, avrà anche la brace.

di Ugo Arrigo, professore associato di Finanza pubblica presso l’Università Bicocca di Milano

Articolo pubblicato sul numero di maggio della rivista Airpress, apparso per la prima volta su www.lavoce.info

alitalia,

Alitalia, ecco perché per i contribuenti sarà un salasso

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